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Tulpa - Perdizioni mortali

Regia di Federico Zampaglione vedi scheda film

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La recensione su Tulpa - Perdizioni mortali

di OGM
6 stelle

Un film apparentemente senza un perché.  Un’opera rimasta ferma al discorso formale, ancorata alle proprie ambizioni stilistiche. Una confezione preziosa ma logora, che racchiude una mancata sorpresa, un lucido cimelio di nobile vecchiume.  Una storia dal fascino preciso ma spento, elegantemente avvolta nella sua sofisticata patina estetica, morbosa e trasgressiva quanto basta a richiamare l’aura del proibito che circondava il filone horror degli anni settanta. La sinistra magia di allora si risveglia, per spogliarsi della veste rivoluzionaria ed assumere le sembianze di un’arte vintage, un gusto del macabro ormai démodé che vive di citazioni, benché continui a produrre suspense e suscitare raccapriccio. Federico Zampaglione, dopo l’avveniristico esperimento di Shadow, decide di tornare indietro, ai modelli di Lucio Fulci  e Dario Argento, per ritrovare l’anima di un cinema italiano che indossa un trucco audace però non osa infrangere i tabù di casa nostra. E così, come una volta, il male si ritrova fantasticamente confinato nell’ambito diabolico, nei dintorni di un inferno esoterico sospeso al di sopra della realtà, orribile ed impalpabile come un incubo notturno. I demoni non riescono ad evadere dai confini dell’immaginario, da quel mondo esclusivo che deborda nella concretezza soltanto nella forma fiabesca di spettri assassini e misteriose alchimie. Il serial killer è ingenuamente relegato al ruolo dell’uomo nero, il sesso orgiastico si trasfigura nella visionaria trascendenza dei riti religiosi, la carne è ridotta a feticcio, e l’umanità ne esce intatta, con la pelle candida di una principessa che beve sangue ma conserva le mani pulite. In questo thriller avremmo davvero preferito vedere qualcosa di nuovo, che, emergendo dall’attuale disincanto morale,  si aggiungesse alla semplice, per quanto appassionata, rivisitazione di un glorioso passato. Invece il contesto temporale appare sbiadito, ridotto a qualche insulso riferimento alla new economy, e, per il resto, arroccato sugli stereotipi sociologici da prima era industriale, con i sotterranei richiami alla bestialità dell’istinto e le fughe nell’occultismo.  Il racconto, purtroppo, non va oltre, e trascura tanto la caratterizzazione psicologica dei personaggi quanto la riflessione sulla crisi, esistenziale e culturale, della nostra epoca.  Fino all’ultimo, noi spettatori non rinunciamo a cercare, questi elementi mancanti, nella nebbia di una vicenda che, ormai, rispetto ai canoni attuali, si può definire underground unicamente nell’ambientazione.  Ma non è soltanto questa aspettativa a tenerci incollati allo schermo: la nostra attenzione è costantemente stuzzicata, nonostante tutto, da una cadenza familiare ma caduta nell’oblio,  e  miracolosamente risuscitata, come un reperto archeologico restituito all’antico splendore. Il suo incanto è l’ebbrezza procurata dall’odoroso fumo di una fiamma estinta. Un mirabile artificio che ci ridona un pezzo di tradizione, con tutte le sue crepe ed imperfezioni, ridipinte da una mano che, imitando, amorevolmente ricrea. 

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