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Naked Blood

Regia di Hisayasu Sato vedi scheda film

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La recensione su Naked Blood

di inthemouthofEP
8 stelle

Crudele, (ir)realistico e inconsapevolmente dolcissimo. Novelli En e Xanax dentro a un vortice di sangue, autolesionismo e sadismo, tra l'Hellraiser di Barker e il binomio Amore-Morte di freudiana memoria. Fresco ed estremo al punto giusto, con pennellate esistenziali di grande arguzia.

 

DA LEGGERE PRIMA DI PROSEGUIRE: Il film, decisamente estremo e pessimista, non è da ritenere serioso al 100%, ma è di sicuro arguto e con molti punti focali di grandissimo interesse. 

Quelle che seguono non sono necessariamente mie totali convinzioni, cerco solo di spiegare il significato dell'opera (io personalmente ho un po' più di fiducia nell'humanitas terenziana e nella legge morale kantiana, anche se un po' di Freud e di nichilismo non fanno mai male a nessuno).

Mi raccomando però: questo film necessita di stomaci forti che non si facciano impressionare dal surplus notevolmente assurdo di sangue.

Bene, allora cominciamo!

 

.

 

NAKED BLOOD (1996). Ovvero quando il sangue è nudo. Quando togli tutti gli orpelli adesivi dall'atto dell'uccidere o dell'autoflagellarsi e lo rapporti alla nuda verità, quella sociale della solitudine, quella psicologica delle malattie mentali, e tutto ciò che rimane è lo spruzzo di sangue eiaculato dal bucherellato avambraccio di una venticinquenne giapponese che si auto-infligge strali di morte per il puro piacere di stare male.

 

Hisoyasu Sato, regista giapponese di film da cinema degli Eccessi con la E più che maiuscola, è un verghiano, perché, senza porsi troppi problemi su cosa si possa mostrare e cosa no, ci pone davanti al fatto nudo e schietto, per quanto indigeribile esso possa risultare allo spettatore anche più allenato a nefandezze di ogni tipo: prende le tematiche del masochismo e del sadismo e ci sbatte in faccia lo sbandamento più totale della nostra società.

 

E non a caso, per forma e sostanza, questa sembra proprio un'opera partorita da quel pazzo di Miike...

 

locandina

Naked Blood (1996): locandina

 

Il film si apre senza troppi preamboli mostrandoci prima un cactus in mezzo al deserto, poi ci catapulta dentro a un laboratorio scarno e asettico, con un computer di enormi dimensioni al centro della stanza, piccole boccette di liquidi non meglio specificati, una foto vagamente ingiallita di un vecchio scienziato e pochi mobili tutto intorno. All'interno di questa stanza si muove come un leone in gabbia un giovane ragazzotto giapponese, evidentemente imberbe e con degli occhiali enormi e squadrati che ne denotano all'istante la natura da secchione della classe e da piccolo genio della chimica.

Lui è Eiji, un aspirante scienziato di 17 anni dalle idee estrose e dall'innata solitudine, mentre l'uomo che abbiamo visto nella foto è il padre misteriosamente scomparso prima della sua nascita e chimico anch'egli. Il computer/moloch è il suo diario personale, sul quale annota i passi percorsi nelle sue ricerche, mentre una di queste boccette, contenente un liquido azzurrognolo acquamarina, ospita il risultato finale della sua ambiziosissima ricerca: un analgesico portentoso che aumenta esponenzialmente la produzione di endorfine da parte del cervello nel momento del dolore, in maniera che, ogni momento che qualcuno prova dolore fisico, non senta altro che piacere. Il suo scopo è quello di portare perpetua felicità al genere umano e riposo totale dal dolore. Anche lui è un overreacher, un po' come il dottor Frankenstein. E come il dottor Frankenstein è destinato a fallire.

Senza farsi scoprire, decide quindi di testare questo epico painkiller sui corpi di tre giovani ragazze, ma gli effetti sono decisamente più disastrosi del previsto: per usare un'espressione vagamente eufemistica, due delle tre angeliche fanciulle iniziano a lesionarsi volontariamente con qualsiasi cosa per provare il piacere del dolore usque, senza interruzione. L'altra ragazza invece vira verso altri lidi di piacere...

 

Già dalla trama - non così stilizzata e banale come ci si potrebbe aspettare - Sato mette in chiaro la tematica principale del suo magnum opus: DOLORE è sinonimo di PIACERE.

Sin dalla seconda topica freudiana questi due concetti sono sempre andati a braccetto, né l'AMORE si è mai potuto distinguere dalla MORTE, ma l'una è confluita nell'altra come succede in questo film, senza che nessuno possa più riuscire a distinguerle: così come accadeva nell'Hellraiser di Clive Barker la sofferenza diventa piacere esiziale, né si può provare ad amare senza far soffrire se stessi e il proprio partner.

 

I presupposti da cui Sato parte sono definitivamente post-moderni, violentissimi e senza appello, e si basano su una concezione della vita alla base fondamentalmente nichilista, in quanto semplicemente prende atto della vacuità dei valori dell'uomo che si appresta ad entrare nel ventunesimo secolo.

E la vacuità di valori come l'amicizia o l'amore si esemplifica fisicamente nella sofferenza (prima psicologica, poi fisica) insita in tutti i personaggi che ritroviamo dentro a questo Naked Blood, tutti personaggi affetti da quella solitudine e da quella incomunicabilità che derivano direttamente dalla parcellizzazione dei rapporti sociali nelle società ultracompetitive come quella giapponese o quella europea: Eiji è un reietto senza amici, che pone tutti i suoi sforzi nella chimica per non guardarsi attorno e vedersi totalmente solo e privo di rapporti con l'Altro; Rika (l'unica delle tre ragazze ad avere un nome) non riesce più a dormire dopo lo shock avuto sui 10 anni dovuto alle prime mestruazioni, e da allora ascolta i dialoghi tra le piante (??!) e riesce a rilassarsi solo grazie a un visore di ultima generazione collegato a un cactus (altro simbolo della sofferenza come tassello vitale/mortale per l'esistenza dell'uomo); le altre due fanciulle sulle quali viene testato l'analgesico sono la prima una giovane anoressica ossessionata dallo sport e dal fitness, tanto dal dimenticare ogni granello di felicità per mantenere il suo corpo sempre magrissimo e senza un filino di grasso in più, mentre l'altra al contrario rifugge da tutti i suoi problemi relazionali nascondendosi dentro al cibo; allo stesso modo la madre di Eiji, medico anch'ella, vive in uno stato più o meno di catatonica colpevolezza sin dalla scomparsa del marito avvenuta 17 anni prima.

 

Tutti personaggi tormentati, che, dopo la somministrazione del liquido in questione, vedranno inflitti sul loro corpo (o su quello degli altri...) tutti i loro desideri repressi, che fanno capo alla NECESSITA' di AMORE che ogni individuo sente in ogni momento della sua vita: ma, essendo impossibile amare in un mondo privo di valori come quello dell'era post-moderna della spettacolarizzazione del dolore, secondo Sato l'unico modo per avvicinarsi al piacere, per natura inafferrabile (si veda la teoria del piacere di Leopardi), è quello di fare del male, in primis verso se stessi (ma non solo...).

 

Stilisticamente Naked Blood è un po' un Giano Bifronte di romana memoria, in quanto riflette perfettamente entrambe queste istanze: la prima parte si prende i suoi tempi, vaga lenta e pacifica sui volti dei personaggi, mentre la regia sfrutta spesso anche la telecamera che Eiji porta a mano per controllare gli effetti della sua medicina (e qui avvicinandosi di fatto al mockumentary), per poi presentare in altre scene delle tenere panoramiche volte a indagare le azioni dei nostri personaggi, accompagnate con alcune carrellate a precedere o a seguire che, insieme alle immagini sgranate dalla definizione non perfetta, ricordano tanto le prime follie di Miike, per l'appunto. Nella prima parte Sato imbastisce dunque un inusuale quanto sognante incontro amoroso tra Eiji e Rika, scene (in)consapevolmente molto dolci e decisamente più toccanti di una qualsiasi puntata di Inga Lindstrom trovata per caso in prima serata su La5 durante lo zapping post cenam

 

Ma, dall'altra parte, alla metà esatta del film, il registro rifugge dal puramente romantico e vira verso l'horror estremo, accentuando la sua dimensione voyeur e intrinsecamente visionaria, memore tanto dell'inventiva di Fulci quanto della saga dei Guinea Pig, tanto della sporcizia di Nekromantik quanto del body horror di Cronenberg: e così abbiamo vagine auto-mutilate e poi ingerite con sommo piacere, capezzoli recisi di netto, occhi mangiati, gente sgozzata, braccia perforate da stanghe, nonché un bello stomaco aperto a mo' di utero capace di far rabbrividire perfino Giulio de Santi (e dentro a questo stomaco qualcuno entrerà, forse in sogno, per ritrovare l'amore materno nascondendosi finalmente dai problemi della vita adulta, un po' come succederà in Visitor Q, sommo capolavoro del maestro Miike).

L'avevo detto d'altronde che Sato è un verista... non certo perché queste cose siano all'ordine del giorno - ci mancherebbe altro - ma perché esemplifica nell'infausto analgesico le vere cause di autolesionismo e suicidi in giro per il mondo, ovvero la solitudine, la mancanza di affetto, l'incapacità di sentirsi accettati.

 

E così, il film si sviluppa con polso fermo e genialità per tutti i suoi 76 minuti di durata, sotto una musica cacofonica di tastiere che fanno rabbrividire di tensione non appena entrano in scena. 

 

Ovviamente un altro tema cardine di quest'opera è quello della ricerca scientifica, in particolare di quella che ha come fine l'eliminazione del dolore nell'attuale edonista civiltà del piacere, senza comprendere che il dolore non può essere annientato senza la dipartita anche del suo opposto, ovvero il piacere. Quindi, nell'impossibilità di eliminare l'uno e l'altro, per vie traverse vengono entrambi aumentati: e così le nostre tre ragazze godono nel soffrire, nel trafiggersi o nel trafiggere.

Il potere della scienza è grande, ma non può spingersi oltre i limiti dell'umano, così come ci viene mostrato in Re-Animator di Stuart Gordon (invero molto vicino a Naked Blood per tematiche e stile registico) e ci veniva tramandato nella figura romantico-gotica dell'overreacher, impersonato per eccellenza dal dr. Frankenstein del romanzo di Mary Shelley, che, sfidando Dio e il concepimento femminile, crea una creatura dalla morte, odiata e isolata, che comincerà a uccidere per la sua condizione di reietto.

E bene o male è quello che succede ai protagonisti di Naked Blood, anche loro sono nati soli e per trovare il piacere (o un'affermazione dei loro istinti primordiali) devono vedere il sangue che scorre.

 

Si ripropone dunque la dialettica Amore/Morte e Piacere/Dolore. Troppo semplice sarebbe riferirsi solo all'Hellraiser di Clive Barker.

Mi si perdoni quindi se mi spingo oltre la sfera cinematografica per abbracciare un discorso più ampio che si muova fra letteratura e filosofia: l'AMORE e la MORTE, da così divisi che erano nella dottrina degli elementi del greco Empedocle (creazione vs. distruzione come entità compresenti ma nettamente opposte), e da così distanti che erano all'interno dei trecenteschi Triumphi del Petrarca e nella dotta ma stilizzata poesia petrarchista del Rinascimento (che annulla di fatto la sentita dialettica amore-sofferenza presente in certo stilnovismo e in alcuni componimenti dei Rerum vulgarium fragmenta), tra Settecento e Ottocento sono andati progressivamente avvicinandosi, sulla scia di certe poesie barocche del Seicento di stampo fatalista, e l'AMORE ha iniziato a richiedere sempre più accanto a sè la MORTE (in quanto l'una provoca l'altra), insieme ai due rispettivi corollari, ovvero il PIACERE e il DOLORE; questo lo vediamo in special modo nel mondo della letteratura (penso al già citato marchese de Sade, ma anche al Foscolo delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, allo Stendhal de Il rosso e il nero, al Leopardi dell'Ultimo canto di Saffo, all'Edgar Allan Poe di Berenice, al Baudelaire dei Fiori del Male o al D'Annunzio del Trionfo della morte alle porte del Novecento), per poi venir riuniti finalmente da Freud all'inizio del XX Secolo all'interno della seconda topica (compresenza di Eros e Thanatos come unici caratteri innati nell'essere umano, e quindi veri propulsori dell'impulso umano) e in un certo qual modo anche dalla chimica della morale del baffone tedesco Nietzsche; e di lì la suddetta accoppiata ha avuto un successo immediato nel mondo dell'arte, nel cinema come nella musica (la pittura l'aveva già sviscerato abbastanza nell'Ottocento e agli inizi del Novecento con artisti come il romantico Goya o l'espressionista Munch, mentre il cinema, per nascita decisamente successiva e censure varie, ha iniziato a sperimentarlo con forza solo a partire dagli anni Sessanta del Novecento, e penso a Godard).

Il successo di questo binomio ha portato quindi ad analisi impeccabili e di splendida estetica come Ecco l''impero dei sensi di Nagisa Oshima (1976), Buio Omega di Aristide Massaccesi (1979) o Nymphomaniac di von Trier (2013), e di cui questo Naked Blood è fedele compagno nell'esplorazione (esistenziale prima che estremista) del dolore come compagno inossidabile dell'essere umano, anche e soprattutto in compagnia del piacere, perché non c'è piacere senza il suo contrario, e, come la dottrina dello Yin e dello Yang ci insegna, sono due facce apparentemente opposte della stessa identica realtà

 

E Sato, nonsostante alcune incongruenze di fondo dell'opera e qualche problema a livello di fotografia in esterni, riesce benissimo in questa operazione nichilista, cattiva e arguta al punto giusto, condita con minimalistiche pennellate esistenziali davvero magistrali, che ben si sposano con il dolcissimo estremismo del film.

 

Menzione d'onore per la (quasi) scena finale dell'accoppiamento, in cui Eiji e Rika si pongono agli occhi dello spettatore come gli En e Xanax dell'omonimo pezzo di Samuele Bersani, distrutti e delusi, reietti e impasticcati, ma perdutamente innamorati l'uno dell'altra. Il finale realizzato da Sato è però ben più truce e nichilista di quello più romantico e resiliente sperato da Samuele nella sua splendida canzone, che, alla fine, è quello che speriamo tutti per noi, e che forse un giorno finalmente arriverà.

 

En e Xanax si anestetizzavano
Con le loro lingue al gusto di menta e marijuana
E poi si addormentavano.

E poi si addormentavano.

(Samuele Bersani)

 

Durante le riprese, la violenza significa amore e armonia. Durante le riprese dei miei film, nessuno si è ferito gravemente. La cosa curiosa è che più l'amore è grande, più aumenta la violenza. Ultimamente ho il dubbio che proprio dall'amore nasca la violenza. In altre parole, sono la stessa cosa.

(Takashi Miike)

 

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