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Un giorno devi andare

Regia di Giorgio Diritti vedi scheda film

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La recensione su Un giorno devi andare

di M Valdemar
8 stelle

Scrittura densa, sospesa, che esplora spazi sconfinati e scenari insalubri permeandoli degli umori ancestrali e violenti sgorgati dagli squarci penetrati nelle profondità dei tormenti dell’anima - individuale e collettiva - cogliendone, senza alcuna pretesa di costruire tesi, le istanze e il senso viscerale dei sentimenti interrotti, perduti: l’ultima fatica di Giorgio Diritti racconta di bisogni e traumi ma non ha necessità di traumatizzare a sua volta.
È come se il suo sguardo (autenticamente) sensibile fluttuasse tra le onde dell’emozione (mai compassionevole) senza sfruttarle, lasciandosi trascinare dalle correnti libere e selvagge verso luoghi lontani che riflettono lo stato (stagnante) del momento.
Il riparo nel confortevole conosciuto ventre della religione, capace di figliare anche buone intenzioni ma che si rivela regno molle di rituali vetusti, ciechi e incomunicabilità. La sicurezza di un rifugio familiare tra le rovine decadenti eppur accoglienti di una comunità unita e complessa nonché non capita, sottoposta al giogo continuo di trame politiche e crudeli manifestazioni della natura (anche, e soprattutto, umana). Infine, l’autoisolamento, giunto guadando la maestosa e pericolosa bellezza dell’elemento vitale-acqua (essenziale lungo il corso del film): una spiaggia aperta sul mondo, la visuale che abbraccia orizzonti in(de)finiti, il (tentativo di) distacco dalle sciagure e brutture delle cose terrene, il sorriso, l’aiuto disinteressato di una famiglia e la danza giocosa con l’innocenza.
Un viaggio, disperato e di speranza, quello di Augusta, senza destinazione se non la comprensione di quello che non può essere compreso, per cercare una luce nell’accecante buio indotto da un dolore lancinante e perdurante. Un girovagare incerto e agitato, necessario (perché «devi andare») e medi(t)ato, tra i marosi del caos e i riflussi di paure fangose e vive.
In Augusta e nei suoi occhi - ora svuotati ora impenetrabili ora spensierati, che paiono sempre espandere l’esilità e la grazia dell’animo ferito, grondante sangue e smarrimento -, in quel suo incedere affannoso e sconnesso sebbene determinato, risiede il cuore pulsante di una prosa sensibile che si fa poesia del respiro e della ricerca di (e in) sé. Anche quando i versi sembrano deviare, soffermandocisi  troppo, in spazi che (soltanto in apparenza) sembrano disperdere il senso e l’equilibrio; equilibrio che, al contrario, proprio da tali spostamenti e soste (come ad esempio l’intera parte ambientata nelle favelas come quella nell’”aldiqua” italico) trae le forze facendole convergere, con i dovuti tempi, in un’intensità compiuta che avvolge il racconto (e la sua protagonista) rendendola con sincero lirismo ed il giusto grado di coinvolgimento sullo schermo.
Non ricorre, Diritti, né a facili struggimenti né a parimenti facili e noti meccanismi ricattatori o pietistici: la sua è una visione intrisa di passione, curata ma non eccessiva o satura, che chiede - anziché pretendere - partecipazione.
Con un ritmo fluido, una messa in scena vigorosa affacciata con armonia sulle differenti condizioni di ambienti, cose, uomini, ed un’ammirevole capacità di riflessione che risulta lieve malgrado la pesantezza dei temi trattati, Giorgio Diritti insegue con amore Augusta, inquadrandola come persona - di cui ne fotografa i tumulti interni - e non come mero personaggio.
Alla cui riuscita contribuisce l’ottima prova della protagonista, la forse mai così brava Jasmine Trinca, che si offre con trasporto e disarmante naturalezza, senza enfasi e attacchi d’isterismo e ammiccamenti vari. Uno sguardo che perfora, sostenuto, che sembra contemplare i confini di un mondo cullato da una melodia immortale i cui versi cantano l’infinita meravigliosa mutevole fragilità dell’animo umano. 

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