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Calm at Sea

Regia di Volker Schlöndorff vedi scheda film

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La recensione su Calm at Sea

di OGM
6 stelle

Il mare era calmo quando i ventisette ostaggi sono stati fucilati. Erano tutti francesi, perlopiù giovani, di religione ebraica, di fede comunista, di ideali libertari. Formavano solo una piccola parte di quei centocinquanta innocenti prescelti per saldare, con la propria vita, il conto aperto con l’uccisione di un ufficiale tedesco, in un attentato messo in atto da tre appartenenti alla resistenza. Il diciassettenne Guy Môquet era prigioniero politico a Choisel,  quando, una mattina, lo hanno  caricato su un carro e trasportato su una spiaggia, dove lo hanno legato a un palo. Un atto preparato con freddezza burocratica, soppesando i pro e contro sul piano della strategia e dell’opportunità,  mentre, nelle alte sfere, si discuteva della questione umana senza mai trasformarla in un vero dilemma morale, né, tantomeno, farne un motivo per passare all’azione. I grandi hanno pensato e parlato, ma non hanno fatto nulla. Sono rimasti inerti i politici (il maresciallo Pétain), come i letterati: lo scrittore Ernst Jünger era un membro dello stato maggiore delle forze d’occupazione, il futuro premio Nobel Heinrich Böll era invece un soldato appena ventenne, che non ha avuto il coraggio di rifiutarsi, quando lo hanno chiamato a far parte del plotone d’esecuzione. È così che un’inutile crudeltà è diventata una necessità ineludibile. Sotto gli schematismi di questa logica priva di senso, gli individui fremono di paura e di rabbia, ma anche di amore e di speranza. Lottano e sognano con animo semplice, come uomini qualunque che fanno il loro meglio per essere all’altezza di un compito tanto importante come salvare la patria, e magari cambiare il mondo. Sono un gruppo sparuto e male assortito, alcuni sono ancora imberbi, altri sono già avanti con l’età, e molti sono privi d’istruzione. Sono troppo deboli per costituire una minaccia, e forse anche per poter davvero rappresentare il principio di una nuova era. Eppure affrontano la morte con coraggio, guardando in faccia i loro assassini, e rivolgendo la mente al futuro, al tempo in cui le loro famiglie ed il loro Paese continueranno a esistere, e tutto, magari, sarà completamente diverso rispetto a quel tragico momento. La retorica si frange nelle schegge di una poesia infantile, quando incontra la grezza superficie dell’ingenuità. È così che nasce l’immagine popolare del martire: un personaggio che commuove per il suo infelice destino e per la bontà che, malgrado tutto, non ha mai abbandonato. Il palpito delle emozioni, che continua fino all’ultimo, spegnendosi soltanto nell’attimo fatale, è il miracolo che, più di ogni prodigio celeste, accende la fantasia e tocca il cuore. A metà strada fra l’agiografia ideologica e la banalizzazione romantica si trova quel fenomeno naturale che si chiama trasfigurazione e trasporta, anche nei contesti più duri e desolati, il soffio magico della letteratura. Nei discorsi dei signori della guerra si affaccia allora, en passant, la profondità della filosofia, così come, nelle chiacchiere della gente comune, la lingua, inaspettatamente, arriva a farsi melodia. La cronaca storicistica cede il passo a un coro di voci spontaneamente artistiche, che, all’interno dei grandi eventi, trovano solo la cassa di risonanza di un caos indomabile, oppure l’eco lancinante di un acutissimo dolore.  La mer à l’aube non è il film che ci aspetteremmo dal regista di Der junge Törless: ma forse non è poi così male se, per una volta, l’autorialità che parla come un libro scende dal pulpito e si mescola allo spettacolo del mondo, con i buoni che ci fanno versare tante lacrime ed i cattivi che sono soltanto patetiche caricature da teatro comico. 

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