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La madre

Regia di Andres Muschietti vedi scheda film

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La recensione su La madre

di OGM
8 stelle

Romanticamente coinvolgente, soprattutto nel finale. Ma per un volta, il fascino gotico non c’entra. Questo horror, moderno ed intriso di tenerezza infantile, è avvolto in una struggente poesia che trascende il tempo ed i canoni romanzeschi del genere. Mamá è l’invocazione dei bambini bisognosi d’affetto. È la parola che chiama le carezze, il cibo, il dono di una bambola, oppure, semplicemente, quel senso di protezione trasmesso da una presenza costante e premurosa. La cronaca contemporanea, con i suoi casi di omicidi familiari, sottrazioni di minore, e misteriose scomparse, è il convenzionale antefatto di una vicenda  nella quale l’amore diventa follia, ma non nell’usuale significato del termine. Improvvisamente, l’obiettivo si stacca dai mali del presente per migrare verso l’aldilà, dove i cuori spezzati continuano a dibattersi smarriti, poiché non trovano pace nemmeno nella morte del corpo. I fantasmi degli insepolti si aggirano nel mondo per cercare giustizia, che può essere anche, come in questo caso, la riparazione di un torto commesso. La colpa imperdonabile è l’atrocità di fondo che scatena un dramma senza fine, la disperazione di un’anima straziata che vaga nell’ombra, rimanendo nascosta per decenni, prima di diventare nuovamente materia, evanescente e opaca, però palpitante di un desiderio ancestrale, di un istinto materno scritto nel destino di ogni donna, anche di quelle possedute dal demone della malattia mentale. Una fatalità scritta nei geni, ed insensibile alle leggi dei vivi, è la tragedia che, in questo film, si sviluppa inesorabile, inquietante ma umanissima, infinitamente crudele, eppure mai deturpata dai connotati della mostruosità. Guillermo del Toro produce quest’opera ispirata al principio - ampiamente applicato nella sua filmografia, fin dai suoi cortometraggi d’esordio, secondo cui l’orrore è in mezzo a noi: è il riflesso delle nostre debolezze, un’entità che respira al ritmo dei nostri pensieri inconfessabili, facendo emergere dal buio tutto ciò che ci affanniamo, in ogni modo, di tenere segreto e dimenticare per sempre. A creare l’aberrazione è la frustrazione di non poter essere ciò che si vorrebbe, ossia l’utopia individualista di chi  pretende di evadere dai confini della propria inadeguatezza e dalla conseguente infelicità esistenziale. A cadere preda di questa tentazione diabolica può essere chiunque, dal ragazzino che non riesce a superare l’esame di geometria all’uomo che aspira all’immortalità. Lo spettro di  Faust si spande nell’universo, andando a caccia dei più indifesi, quelli che più di ogni altro sognano di diventare forti, liberi, o anche solo “normali”.  Sono prede delle loro fantasie impossibili, della loro incapacità di accettazione. è questo il destino capitato a Mary Edith Brennan: una sventura che, a distanza di oltre un secolo, si trasforma in un potente vortice in grado di sconnettere ragione e sentimento. Quell’energia avida e distruttrice è, in realtà, espressione di un dolore universale che appartiene ad uno spettro, ma che è difficile immaginare sradicato dalla carne. La tensione, in questo thriller che si aggrappa alle viscere, è tutta contenuta in questo paradosso, che riassume, in un lacerante abbraccio d’addio, la pena di dover andare via, e non poter più tornare indietro.

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