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Footloose

Regia di Craig Brewer vedi scheda film

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La recensione su Footloose

di degoffro
3 stelle

E’ un vero peccato che Craig Brewer, già autore degli apprezzati e riusciti “Hustle & Flow” e “Black snake moan” (in Italia rimasti inediti, ma meritevoli di un recupero almeno in dvd), si sia impantanato in un remake che già sulla carta era da suicidio. “Footloose” di Herbert Ross, di chiara matrice anni ottanta, pur con i suoi limiti (non vale, per intenderci, “Flashdance”, altro classico danzante Paramount del decennio), ancora oggi conserva un’invidiabile e nostalgica freschezza, complice un cast affiatato, musiche trascinanti ed una regia che non si accontenta soltanto di conferire alla storia un ritmo ballabile ma si preoccupa anche di dare spessore ai diversi personaggi. Il remake, purtroppo, non si differenzia in nulla dai troppo plastificati e convenzionali film danzerecci che, da “Save the last dance” in poi, hanno intasato il cinema americano, creando quasi un sotto genere a sé.

Brewer riprende quasi pedissequamente l’originale, apportando solo piccole e comunque ininfluenti modifiche: è aggiunto un superfluo prologo a raccontare l’incidente mortale che porta la comunità di Bomont a sancire il divieto dei balli, si inserisce la ridicola sequenza in cui il protagonista Ren rimette in moto, in poche ore, un maggiolino giallo dimenticato da tempo nel garage dello zio (omaggio all’auto guidata dal protagonista nell’originale, con tanto di primo giro per la cittadina con l’autoradio a palla sulle note di “Bang your head”), viene eliminato il personaggio della madre di Ren, di cui si dice sia morta di leucemia nell’illusione di rendere ancor più drammatica e sofferta la condizione del protagonista, già abbandonato dal padre, è reso molto più protettivo e complice, di conseguenza, lo zio Wes presso cui Ren va a vivere, la celebre gara tra ruspe sulle note di “I need a hero” viene trasformata in una roboante e insulsa corsa su scuolabus da rottamare, la sequenza in cui Ariel resta sospesa in piedi tra due auto in movimento sulla strada mentre nella direzione opposta arriva un camion è sostituita con un innocuo giro, a tutta velocità, seduta sul finestrino di un’auto da corsa. Il resto è sostanzialmente immutato, diverse battute, situazioni e canzoni sono riprese identiche, persino i vestiti indossati da Ren e Ariel alla festa finale sono gli stessi. Eppure il film lascia addosso una fastidiosa sensazione di stantio e derivativo.

Aumentano gli ammiccamenti sessuali, si enfatizzano diversi passaggi narrativi (la perdita della verginità di Ariel con il rozzo Chuck, il tentativo di incastrare Ren per possesso di droga, la rissa finale, la danza di sfogo solitaria di Ren, al magazzino dismesso, con il ragazzo che letteralmente sputa tutta la sua rabbia contro la comunità che lo ha guardato fin da subito con sospetto, la sequenza in cui il reverendo scopre la figlia a ballare, disinvolta e disinibita, in mezzo alla strada, di sera, con altri ragazzi), i balli si fanno più sensuali, sudaticci, acrobatici e passionali, le banalità, anche registiche, si sprecano (imperdonabile il primo bacio al tramonto o i genitori di Ariel che osservano compiaciuti, dalla finestra di casa, la figlia che va alla festa accompagnata da Ren – confrontare con l’originale per capire con che intelligenza e sensibilità la medesima situazione era stata risolta). Il lagnoso e manualistico teen-movie adolescenziale si fa preponderante, in una prospettiva edulcorata, anestetizzata e patinata alla MTV che infatti produce. Il contesto socio-culturale, inoltre, che già poteva apparire forzato nel primo film (ma Herbert Ross aveva l’accortezza di piccole ed azzeccate annotazioni con intuizioni curiose, quasi alla “Fahrenheit 451”, capaci di ben inquadrare e rendere persino credibile la comunità bigotta, conservatrice e chiusa in se stessa in cui si era ritrovato Ren, dove erano banditi non solo i balli ma anche romanzi ritenuti scandalosi come “Mattatoio 5” – non dimentichiamo che il film originale era ispirato ad una reale vicenda accaduta a Elmore City in Oklahoma, dove gli studenti del liceo locale hanno dovuto fare a lungo pressioni sulle autorità scolastiche e comunali per ottenere il permesso di un ballo di fine anno, legalizzato solo nel 1980), qui sfiora il ridicolo e risulta fuori dal tempo – anche perché le nuove generazioni, rispetto ai giovani di 30 anni fa, a torto o a ragione, paiono essere molto più sfrontate, spregiudicate e persino irriguardose verso il mondo adulto e difficilmente si fanno mettere i piedi in testa e soprattutto imporre regole così drastiche e proibitive. Le dinamiche familiari sono trite e meccaniche con la manichea contrapposizione tra un padre rigido, repressivo ed intransigente ed una figlia ribelle, audace ed ostinata, con una madre a fare da paciere, ma più che altro complice della figlia di cui comprende e asseconda bisogni e desideri.

Per giunta i due anonimi ed esagitati protagonisti (inizialmente avrebbe dovuto esserci Zac Efron) non valgono un grammo di Kevin Bacon e Lori Singer, e anche l’amico Willard di Miles Teller, fisicamente persino simile al giovane Chris Penn, non riesce a riprodurne la tenera e simpatica goffaggine. Eppure Brewer ha dimostrato, nei suoi precedenti e più personali lavori, di sapere costruire opere di spessore, non ripiegate su sciocchi stereotipi o biechi e plateali luoghi comuni. In questo caso pesa con ogni probabilità il timore di non voler troppo tradire il film originale (amatissimo dal regista, per sua stessa ammissione), per non deludere i fan, ma così facendo la nuova, opaca e timida, versione di “Footloose” è senza spinta, senza anima e senza cuore, si riduce a una imitazione servile, oziosa e pedestre e si presenta fin da subito impacciata, vecchia ed anacronistica. Il confronto diventa in questo modo impietoso, a tal punto che la dedica che si legge sui titoli di coda a Herbert Ross suona del tutto inopportuna. Sprecatissima Andie MacDowell in un ruolo di pura cornice che però la magnifica Dianne Wiest aveva valorizzato con un paio di scene di toccante commozione. Errore imperdonabile poi affidare il ruolo dell’integerrimo reverendo Shaw Moore a uno spaesato Dennis Quaid, colui che, proprio negli anni ottanta, era stato uno scatenato ed irresistibile Jerry Lee Lewis in “Great balls of fire”. 50 milioni di dollari al box office americano, in Italia distribuito direttamente in dvd. Non contento, Brewer cinque anni dopo girerà per la tv anche il remake di “Urban cowboy”.

Voto: 3

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