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Black River (Kuroi kawa)

Regia di Masaki Kobayashi vedi scheda film

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La recensione su Black River (Kuroi kawa)

di kikisan
8 stelle

Il cinema del dopoguerra è caratterizzato dalla messa in scena del dramma e del disagio che colpisce le popolazioni che devono affrontare la piaga della povertà. In Italia si afferma il neorealismo di De Sica e Rossellini; in Giappone - negli anni 50 - cineasti come Akira Kurosawa e giustappunto Masaki Kobayashi, iniziano a girare film di protesta in una nazione sconfitta ed occupata dal "nemico" americano. Questa premessa è necessaria per inquadrare quest'opera meno nota del maestro nipponico; Black River (Kuroi Kawa) è stato girato prima dei successivi ed universalmente riconosciuti capolavori di Kobayashi: la trilogia The Human Condition (Ningen no jôken 1959-1961), Harakiri (Seppuku 1962), Storie di fantasmi (Kwaidan 1964).

Anni '50: lo studente di ingegneria Nishida (Fumio Watanabe), in cerca di un alloggio a buon mercato, trova sistemazione presso uno squallido tugurio di proprietà di un'avida e civettuola vedova. Questo sobborgo di Tokyo è caratterizzato dalla vicinanza di una base militare statunitense. Durante la sua permanenza Nishida conosce e si innamora della bella cameriera Shizuko (Ineko Arima), la quale è sottoposta alle attenzioni del boss locale Jo (Tatsuya Nakadai). Jo è un tipo imprevedibile e violento ed è anche in combutta con alcuni speculatori che vogliono demolire quell'agglomerato di case al fine di costruirvi un bagno pubblico.

Spaccato crudo e realistico di orrori, soprusi, ingiustizie che la povera classe lavoratrice giapponese è costretta a subire quotidianamente. Attorno alla storia principale, ruota un microcosmo di personaggi minori, le cui apirazioni, vizi, meschinità, rappresentano il disagio e lo scoramento di un popolo che fatica a ritrovare la propria identità ed il proprio orgoglio.
Da ricordare sotto questo aspetto alcuni interessanti sottotesti: le donne si prostituiscono all'insaputa dei mariti; un'altra donna si rifiuta di donare il sangue che potrebbe salvare la vita al consorte; un'anziana signora decide di coltivare un piccolo orticello, ma gli altri abitanti si rifiutano di concedergli i loro escrementi corporali al fine di usarli come letame.
C'è anche un sindacalista comunista che cerca di organizzare e guidare questa specie di "corte di miracoli" al fine di potergli garantire qualche diritto. Quando viene il momento che gli inquilini devono essere sfrattati per la demolizione dei fabbricati, molti di questi accettano l'indennizzo di pochi yen, senza pensare assolutamente al loro domani più prossimo.
Poi ci sono gli Americani; la loro presenza viene sempre fatta sentire con rombi di aerei non inquadrati, convogli di camion militari. Sono loro che usufruiscono dei bordelli improvvisati, della "borsa nera", ma allo stesso tempo sono quelli che osteggiano queste pratiche illegali. La forza americana - per estensione - la si può confrontare con le azioni dell'immorale e violento yakuza Jo.
Ma adesso torniamo alla storia principale; il triangolo di personaggi che muove la trama è ben delineato per quanto riguarda i protagonisti maschili. Lo studente Nishida è ancora animato da nobili intenzioni, è ingenuo, si trova in quella situazione quasi per caso, ha l'orgoglio ed il coraggio per fronteggiare il rivale Jo, si innamora innocentemente della bella Shizuko, il suo approccio è quello da love story adolescenziale.
Lo yakuza Jo: vero demone immorale; inganna Shizuko, la stupra mentre lei ha gli occhi bendati e subito dopo finge di salvarla dall'aggressione con lo scopo di entrare nelle sue grazie.
Infine c'è Shizuko: vero fulcro della storia e vera metafora del film.
Questa giovane ragazza rappresenta un po' l'ambiguità del Giappone di quegli anni; Shizuko ama Nishida per la sua gentilezza, cavalleria, sensibilità. Il suo lato oscuro e masochistico però le fa apprezzare anche la crudeltà ed immoralità di Jo; saranno proprio le decisioni, le scelte, la voglia di vendetta di Shizuko che ci accompagneranno verso il magnifico finale, il quale "forse" lascia trasparire un filo di ottimismo.
Emblematico l'ombrellino che la ragazza porta con sé: questo passerà dal candore del bianco, al nero del fango, al rosso del sangue...
Il fiume del titolo non lo vediamo mai; vediamo solamente il ponte, a testimonianza di una transizione (possibilmente breve) a quei tempi auspicata dal popolo giapponese.
Notevolissimo l'uso del bianco e nero che ricorda i migliori film noir americani di fine anni 40 e primi anni 50.
Da confrontare con altri film giapponesi di quel periodo; soprattutto con Bassifondi (Donzoko 1957) di Akira Kurosawa, Il cimitero del sole (Taiyo no hakaba 1960) di Nagisa Oshima e perchè no col più grottesco Porci, geishe e marinai (Buta to guntan 1961) di Shoei Imamura.

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