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Et in terra pax

Regia di Matteo Botrugno, Daniele Coluccini vedi scheda film

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La recensione su Et in terra pax

di Peppe Comune
7 stelle

Nuovo Corviale, quartiere periferico di Roma, un quartiere come tanti altri sparsi in giro per il mondo. Marco (Maurizio Tesei) torna a casa dopo cinque anni trascorsi in carcere per spaccio di droga. Vorrebbe starsene tranquillo e cambiare vita ma le offerte di Glauco (Simone Crisari) e Mauro (Riccardo Flammini) di rientrare nel giro e guadagnare soldi facili lo tentano continuamente. Massimo (Germano Gentile), Federico (Fabio Gomiero) e Faustino (Michele Botrugno) sono tre ragazzi che se ne stanno tutto il giorno in giro a fare i prepotenti contro i più deboli e a vedere come racimolare i soldi per la droga. Sonia (Ughetta D’Onorascenzo) è una ragazza che studia all’Università. Vive con la nonna pensionata (Paola Marchetti) e per rendersi economicamente indipendente chiede ed ottiene un lavoro da Sergio (Paolo Perinelli), il gestore di una bisca del quartiere. Tra di loro non si conoscono questi cinque ragazzi, non direttamente almeno, ma le loro vite appassite avranno modo di incrociarsi. Con risvolti tragici per tutti.

 

 

“Et in terra pax” di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini è un film di ottima resa espositiva, pulito nelle inquadrature ed efficace nello stile narrativo, tanto capace di indagare il mondo difficile della periferia urbana quanto incline a non spettacolarizzarne il potenziale criminogeno che vi si annida. Si muove, sia guardando alla “lezione pasoliniana", per come si pedinano le esistenze di questi figli di “borgata” usando quella comprensione etica che non arriva mai a farsi giudizio morale, che seguendo il solco tracciato da tanto cinema che già è stato prodotto sul tema della periferia urbana come luogo suscettibile di segnare irrimediabilmente il destino dei suoi abitanti ( e penso a film come “L’odio” di Mathieu Kassovitz, “Pater Familias” di Francesco Patierno, “La schivata” di Abdellatif Kechiche). L’ambiente in cui si cresce è una cosa da cui difficilmente ci si può affrancare totalmente, è come un cordone ombelicale che ci tiene legati agli scenari consueti, complici di un disagio esistenziale che si fa sistema di vita, di una solitudine individuale che ne riflette solo un'altra più ampia, quella che ha inghiottito un intero quartiere (e interi quartieri), assente al mondo perché costretto ad un forzato isolamento, fisico e morale. E’ appunto il tema dell’assenza l’elemento centrale del film, inteso non solo in senso stretto, legato cioè all’assenza delle istituzioni che non offrono alternative concrete al prodursi sistematico e sistemico della devianza sociale, ma anche, e soprattutto, in senso più ampio, come qualcosa che è avvertito coi sensi ma che non si possiede in concreto, che è desiderato ma che difficilmente si riuscirà a raggiungere, che è vicino fisicamente, a portata di occhio anche, ma molto lontano dalle uniche prospettive che si riceve in offerta. Non a caso, Botrugno e Coluccini tengono fuori campo, sia la violenza quando esplode che la fisica rappresentazione delle aspirazioni più intime, arrivando ad una caratterizzazione assai credibile del milieu urbano agendo per sottrazione di stati emotivi (e contrappuntando il tutto con le musiche di Vivaldi). L’assenza diventa abitudine all’abbandono, di se stessi e dagli altri. Marco siede tutto il giorno su una panchina ed aspetta i “clienti” per vendergli la droga. Da questa postazione (racconta a Sonia nella sequenza più bella ed emblematica del film), vede la vita scorrergli continuamente sotto gli occhi. Vede dei lavoratori immigrati raccogliere senza posa dei calcinacci e degli zingari sfasciare elettrodomestici in disuso per cercare di ricavarci qualche chilo di rame da poter vendere per pochi euro. Lui arriva quasi ad invidiarli questi sfruttati della terra, a invidiare la loro sofferta consapevolezza, vorrebbe sgobbare tutto il giorno anche lui per affrancarsi dalla sua condizione esistenziale, ma l’abitudine a desiderare senza agire riflette un immobilismo che gli ha anestetizzato il domani. Sonia è l’unica che tenta una via realmente alternativa per costruirsi una prospettiva per il futuro, con l’università e il lavoro onesto, ma non sfugge alla tendenza di chiedere lavoro alle persone di sempre e nei luoghi abituali. Alternerà lo studio con il lavoro nella bisca di quartiere di Sergio, non svincolandosi mai dal pericolo di rimanere stritolata nelle spire del malaffare che vi fa capolino. Massimo, Faustino e Federico stanno sempre insieme ma sanno veramente poco l’uno dell’altro, più che amici sono tre ragazzi abituati a bazzicare per le stesse strade e dentro gli stessi disagi, accomunati dal vizio della droga e dalla smania di dover fare i bulli ad ogni costo. Si muovono continuamente, ma rimangono sempre nello stesso posto, sono in cerca di un’identità definitiva e si illudono di stare meglio accompagnandosi alle solitudini esistenziali degli altri. Ecco, l’assenza concreta di un qualcosa che è pensato soltanto ma che probabilmente non si realizzerà mai produce l’abitudine a non sapersi pensare diversamente da come si è e lontani da dove si è sempre vissuto, prigionieri di un isolamento esistenziale che serve ad alimentare la creazione di (non) luoghi che bastano a se stessi. Quello che vogliono i Glauco e i Mauro di turno, dei luoghi dai confini ben stabiliti e senza intromissioni di sorta, dove le attese sono infinite per chi vorrebbe fuggirne e la pace è l’immobilismo dell'avvenire.  

 

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