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Il mio nome è Khan

Regia di Karan Johar vedi scheda film

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La recensione su Il mio nome è Khan

di FilmTv Rivista
8 stelle

Siamo tutti americani. È questo il collante con cui, all’indomani della tragedia che ha fatto dell’America un campo da risiko, il popolo statunitense e non solo si è stretto in quei giorni terribili. I bianchi con i neri. I cattolici con i musulmani. Ma si sa, trovare un capro espiatorio, un parafulmine su cui scaricare le proprie frustrazioni e la propria rabbia è certo un buon antidoto al dolore. E a pagarne le spese, naturalmente, è stata in primis la stessa comunità islamica. Ne fa parte Khan, indiano mite ma per nulla remissivo, che soffre della sindrome di Asperger. Il che non vuol dire che è matto, semplicemente non capisce certe cose ma in compenso gli è molto chiaro il fatto per cui al mondo ci sono solo persone buone o cattive. Tutto il resto è noia. A colorargli il mondo, ci pensano una moglie meravigliosa di religione induista, Mandira, e il figlio di lei, trasformato poi in vittima della guerra al terrore al pari dei civili morti sulle Torri o dei soldati ammazzati in Afghanistan. Da lì per il protagonista (una sorta di Forrest Gump del nuovo millennio), la forza per attraversare l’America al grido di «il mio nome è Khan e non sono un terrorista». E contemporaneamente per il regista, Karan Johar, lo spunto per riprendere in mano il tema forse a lui più caro, e cioè il coagulo di legami e affetti che tiene al riparo una coppia dalle intemperie esterne. Ma sono tantissimi gli argomenti su cui si inerpicano il cineasta e i protagonisti (due diamanti dello star system bollywoodiano come Shahrukh Khan e Kajol). Innanzitutto una riflessione sul mondo pre e post 11 settembre (quasi fosse uno spartiacque storico al pari della nascita di Cristo), il bisogno dilagante di umanità (merce rara ormai) e anche la necessità (e la volontà) di condivisione del dolore. Certo, l’impasto è tipicamente Made in Bollywood, con tanto di uso sfrenato di ralenty, happy end al limite dello zuccheroso e gusto coreografico che sinceramente lo stomaco occidentale non ha ancora imparato a digerire. Detto ciò, il film ha indubbiamente un cuore grande. E poi forse è ora di smetterla di guardare alla tragedia da una posizione “domestica”, per non dire dire ombelicale.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 48 del 2010

Autore: Erica Re

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