Regia di Alejandro Amenábar vedi scheda film
Nel dare le forme suadentemente romanzesche del peplum al martirio di Ipazia Amenabar immobilizza in pose statuarie le due categorie di individui in cui si differenzia la razza umana e il cui scontrarsi determina la tragica storia delle civiltà: quelli che tengono gli occhi alzati al cielo e quelli che al contrario non li staccano mai dal suolo; i primi vanno alla ricerca di un Dio nell'imperscrutabile perfezione del cosmo, gli altri Dio lo hanno trovato dentro di sé e sono convinti di esserne interlocutori privilegiati. Nel lungometraggio Ipazia( Rachel Weiss) scruta il firmamento, ne investiga tormentosamente le leggi celate, ponendo il dubbio dello scienziato esploratore dell’ignoto a norma fondamentale di vita; il suo schiavo ed allievo Davo, animato da un intenso amore per lei non ricambiato e ferito dalla iniquità sociali delle quali è testimone in prima persona, diviene militante nell’esercito dei fondamentalisti paraboloni, eppure memore della lezione della maestra osserva spesso gli astri luminosi e si chiede di fronte alle stragi perpetrate dai “fratelli” se il messaggio di Cristo crocifisso non consista piuttosto nel perdono. Entrambi finiscono con il pagare lo scotto dell’indifferenza alle regole vigenti in terra: vince, conquistando consenso e potere, ieri come oggi, in politica come in religione, chi, lanciando facili slogan in forma di dogma, solletica la pancia delle masse e non il cervello. Comunque, è innegabile, dietro il successo di leader manipolatori vi sono ragioni legittime e in effetti mostrando gli scempi della folla aizzata dal capo popolo Cirillo la pellicola sfiora i motivi reali della sconfitta storica del paganesimo ad opera del cristianesimo: un economia basata sullo schiavismo, una concezione delle religione come istrumentum regni( strumento di potere) e un sapere astratto, aristocraticamente speculativo e libresco. Per questo la sequenza della distruzione dei rotoli di papiro nella biblioteca di Alessandria fa paradossalmente venire in mente a mo’ di controcanto i volumi inchiodati sul pavimento dell’Università del film di Ermanno Olmi “Centochiodi”: lì i tomi rovinati erano schematicamente figura di verità indiscutibili ed immodificabili e quindi simboleggiavano la negazione della vita e della libertà di pensiero. In “Agorà” la rabbia incosciente contro il patrimonio messo insieme dall'eclettica sapienza aurale greco-latina, non a caso definita con il termine greco agorà/ piazza, deriva dal medesimo furore iconoclastico, quello che in tutti i tempi ha composto i più brutti capitoli delle rivoluzioni culturali e, è sempre accaduto, le rivoluzioni mettono in croce ciò che faranno proprio poi. http: //spettatore.ilcannocchiale.it
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