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Thirst

Regia di Chan-wook Park vedi scheda film

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La recensione su Thirst

di EightAndHalf
5 stelle

L'esplorazione del dettaglio da parte di Park Chan-Wook è giunta al punto di non ritorno, all'esibizione compiaciuta e narcisistica della confezione, del colore, dell'armonia visiva. Peccato che non intervenga mai, in Thirst, un dialogo fra contenuti ed estetica, facendo riecheggiare una storia poco originale e dagli antipodi molto ovvi (prete che diventa vampiro, sangue che diventa pulsione sessuale), e l'armonia fondamentale, almeno al cinema, fra etica ed estetica si liquida in carrellate oniriche al limite dell'ostentazione autoriale più abietta. La Director's cut, poi, nell'aggiunta di un quarto d'ora, risente ancora di più di questo tracotante approccio al tema dei vampiri, narrato con lo stile di I'm a cyborg but that's OK ma senza quell'ironia onnipresente che rendeva quel film un vispo gioco intellettuale. Oltre a mancare originalità, nel bombatissimo Thirst, manca pathos, manca un indirizzamento verso i protagonisti, più che altro carne passionale, morta, incenerita, e non perché si voglia criticare il materialismo esistenziale contemporaneo; manca la scintilla del genio, fatta esclusione, forse, per un finale grandioso che però è, dalla sua prima immagine, prevedibile e semplicemente ben fatto dal punto di vista visivo. Così di Thirst resta la carne esteriore, senz'anima: è un vero e proprio film vampiro.
Giocando con i contrasti forti e le immagini sanguinolente, Park prende l'essere umano e lo sbatacchia in un contesto vitale presumibilmente fastidioso e maleodorante, dunque propone una strenua Resistenza con l'unica storia d'amore possibile, in un mondo impazzito di madri adottive offensive e grassoni generosi, quella fra due morti, risposta alternativa a una vita che è in realtà un gigantesco cadavere, spolpato e sbranato. Da qui la bellezza del contorto, dell'ambiguo, che spezza gli spazi sempre uguali, li illumina e ne fa intravedere i contrasti più corrosivi (il sangue sullo sfondo bianco). Però la Resistenza impone una spaccatura anche nella morale più diffusa, e comporta un petrarchesco conflitto fra santità e peccato, creando al massimo un santo peccatore che sa anche quando farla finita e gettarsi nelle fiamme infernali di un sole nascente. D'altro canto, se "ciò che è morto è morto", con difficoltà si sarebbe potuta perseguire quella morale, così falsamente viva. Gli strati esistenziali dell'eticità umana si mischiano, si frantumano, ritrovano una risposta nel sangue che cola, che sprizza, che spacca il perverso ordinario con una più perversa coerenza vitale fra il proprio comportamento e la propria condizione. Ecco infatti che parteggiamo per i nostri due protagonisti, che eliminano un elemento estraneo e ne immobilizzano un altro, che sono attanaglianti dal senso di colpa che come un macigno sprofonda in una poltrona o ondeggia su un materasso ad acqua, che nelle lunghe scene erotiche trovano brevi pause alla sofferenza. La sofferenza della confusione fra coerenza e incoerenza. Peccato che tutto questo sia, però, un'appendice solamente estetica e visiva del sogno cinematografico, che si fonderà per sempre sull'incongruenza, come una luce che illumina e che invece incenerisce. Park parla bene, ma è solo un eccezionale retore.

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