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Flash of Genius

Regia di Marc Abraham vedi scheda film

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La recensione su Flash of Genius

di spopola
8 stelle

Eravamo solo in cinque ad assistere all’unico spettacolo serale di mercoledì scorso di Flash of Genius  nell’immensa sala del cinema Variety (e anche io forse avrei disertato l’appuntamento se non fossi stato stimolato dalla appassionata requisitoria di mc 5 nella quale mi ero imbattuto proprio quel pomeriggio).
E’ terribile trovarsi quasi sperduti fra le poltrone, soprattutto quando le sale sono di grandi dimensioni come quella che mi ha accolto in questa circostanza. Ti senti ancora più solo e “disgregato”: ci sei andato con un bisogno estremo di perderti nel brusio  e nella confusione e ti trovi nel freddo deserto dell’indifferenza, perché a onor del vero forse l’unico interessato alla visione di ciò che stavano proiettando sullo schermo ero io, non certo le atre due coppiette che mi facevano compagnia nelle file adiacenti, che sembravano essere state attratte soprattutto dalla possibilità di passare qualche ora la fresco per pomiciare un poco senza eccedere in sudorazioni estive che l’approccio ravvicinato dei corpi provoca, determinando – credo - un fastidioso e appiccicaticcio disagio.
Ma evitiamo di perder tempo con annotazioni di costume poco edificanti, che alla fine non interessano a nessuno, e passiamo al nocciolo delle questione, che è poi il film di Marc Abrahm, una pellicola che avrebbe indiscutibilmente meritato una distribuzione meno “distratta” di quella che ha avuto (o per lo meno un periodo più confacente di queste desolate serate vacanziere per raggiungere gli schermi) così da godere di una accoglienza maggiormente calorosa e costruttiva da parte del pubblico fruitore. E’ singolare (mi veniva da dire “criminale”, ma non voglio essere eccessivo) come un podotto non eccezionale, ma di tutto rispetto come questo, venga buttato così allo sbaraglio, senza alcun ritegno, nel tritacarne dell’indifferenza estiva, nemmeno suffragato da una adeguata campagna pubblicitaria di sostegno, come se fosse davvero “carne da macello”. Eppure il film  è “solido” e ben realizzato, e  Marc Abrahm, di professione produttore, che credo essere qui al suo esordio come regista, si conferma bravissimo anche in questo nuovo ruolo e con una navigata ed invidiabile capacità di tenere saldamente in mano il timone. Riesce infatti a condurre in porto con dignitoso decoro un’operazione tutt’altro che facile da realizzare (ed è senz’altro un elogio quello di sottolineare le similitudini strutturali e narrative  - e non sono il primo a rilevarle,  tanto sono evidenti - con un certo cinema di Coppola, in particolare  Tucker, un uomo e il suo sogno per la prima parte e L’uomo della pioggia per quella conclusiva, dove poi il meccanismo diventa quello “classico” processuale, e per un pivellino sarebbe più facile smarrirsi senza un riferimento certo a cui ispirarsi).
Anche in questo caso, la storia è vera e documentata. Prende infatti le mosse da un “ricerca giornalistica” regolarmente citata nei titoli di coda (e sembra già una cosa scritta e pronta per il cinema, se si considera che, per come sono andate davvero le cose nella realtà, potrebbe essere persino scambiata per una bella favoletta edificante), ovviamente rielaborata in una sceneggiatura autonoma ben strutturata e calibrata realizzata a quattro mani da Philip Railsback e John Seabrook, indispensabile per dare il giusto ritmo e le cadenze necessarie a tenere desta la tensione per tutta la durata del film e soprattutto a fornire un adeguato supporto psicologicamente consistente ed umanamente credibile a tutti i personaggi. Un canovaccio che riportato all’osso, si può definire il racconto di una moderna storia che ha per protagonista un piccolo Davide della contemporaneità (l’ingegnere inventore Robert Kearnes) contrapposto a un Golia  potente e “sopraffacente” come può esserlo la Ford, uno dei più tracotanti colossi automobilistici di Detroit (che per altro nella crisi di questi mesi sta pagando il fio per molta della sua proverbiale protervia).
E’ insomma la storia vera dell’uomo che ideò il tergicristallo a intermittenza, invenzione che brevettò nel 1964, senza però trovare acquirenti disponibili (intendeva essere lui ad accollarsene la produzione). L’apparente indifferenza però covava un bieco proposito esautorativo, poiché la scoperta gli fu impropriamente “espropriata” proprio dalla Ford, che in un primo tempo sembrava avergli dato il credito necessario per una collaborazione, dopo che, grazie a questo stratagemma ingannatore, aveva potuto accedere a un prototipo per essere poi in grado di realizzare in proprio la “rivoluzione”, come se la scoperta fosse farina del suo sacco. E fu così un nuovo Modello di Ford Mustang che nel 1969 inaugurò l’innovativo concetto di adeguare il movimento delle spazzole alle necessità oggettive a seconda dell’intensità della pioggia, che si diffuse prontamente sul mercato delle auto, diventando la classica “gallina delle uova d’oro” senza però nulla riconoscere al suo effettivo creatore.
 Come cantava Gianni Morandi comunque (anche se per la verità lui parlava della riconquista del successo dopo un periodo oscuro di crisi e non di una situazione come questa), solo uno su mille ce la fa, non è certamente una regola generalizzabile, e Kearns grazie alla sua cocciuta tenacia è “semplicemente” una di queste rarissime eccezioni positive, anche se ho l’impressione che si tratti di una realtà più americana che universalizzabile (tanto meno esportabile in Italia, poiché sappiamo come vanno le cose qui da noi, e si è abituati giornalmente a verificare senza quasi più nemmeno indignarsi, l’ineguaglianza della giustizia nonostante gli slogan declamatori,  con la bilancia che pende sempre e soltanto dalla parte dei potenti, perché anche se a volte nei primi gradi di giudizio si riesce a farla “trionfare”, c’è poi la Cassazione a “rimettere le cose a posto”).
Comunque al di la di una certa “enfasi”  romanzata della parte strettamente processuale (forse necessaria per tenere viva l’attenzione quando si passa a mere discussioni di natura burocratica), con intuizioni geniali, magari anche veritiere, che riguardano Dickens e la sua scrittura  (e sarà proprio questo uno degli “snodi” che consentiranno all’inventore defraudato di avere la meglio in sede di giudizio), il film ci insegna che chi ha il coraggio di “osare” può farcela anche se la lotta è impari, e che  può accade persino che “chi più dura la vince” (e a parte il già citato Coppola, i precedenti reali o creati ad arte da scrittori cultori del legal thriller, sono numerosi e a vario titolo strutturati per mettere in evidenza le marce deviazioni del capitalismo) anche se nel corso del film ci viene ben illustrato come in genere vadano le cose persino in quel paese sempre meno “liberal” (vedi al riguardo l’illuminate dialogo al ristorante con un ritrovato, eccellente Alan Alda che ci offre un cameo degno della sua fama nei panni dell’avvocato che “diserta”  e si defila per motivi di natura strettamente economica e di “convenienza” operativa).
Dunque un’altra pagina “sporca” che punta il dito verso il vampirismo ipocrita del profitto, che ci conferma comunque che il prezzo da pagare per arrivare a un “equo verdetto” è in ogni caso eccessivamente salato, non solo in termini di anni perduti, ma anche di costi, di sofferenze e di “privazioni” (a partire dalla perdita degli affetti, soltanto in parte recuperati poi, ma solo per quanto riguarda i figli). Un disagio esistenziale, una frustrazione morale che nessun compenso risarcitivo per quanto straordinario, potrà mai rimunerare del tutto, poiché è il degrado etico dei prepotenti di turno che pretenderebbero di farla franca a dover essere stroncato  sul nascere, anziché venire “facilitato” (incoraggiato) da tutta una serie di leggi e di cavilli che poi la potenza del denaro e la capacità affabulante di avvocati senza scrupoli rendono solitamente difficilmente contrastabili perché si rischia di “rimetterci la buccia”, come si suol dire,  e ci sia accontenta allora quasi sempre per non finire in bancarotta, di un marginale, inadeguato risarcimento che rappresenta semplicemente  le briciole di una spettanza che non è solo economica ovviamente ma anche di “dignità”.
 Come giustamente scrive Boris Sollazzo su Film tv (consigliandoci  saggiamente di non perdere l’occasione di confrontarsi con quest’opera), “il film ha la dignità di un classico e sollecita l’idealismo della volontà e il nichilismo della ragione”, ed io non so trovare definizione più adeguata di questa per sintetizzare il tutto. Gran parte del merito (della sceneggiatura e della regia “derivata” o “spudoratamente citazionista” -  e chiamo ancora in causa  Sollazzo  per questo - ma sapientemente strutturata come meglio non sarebbe possibile, ho già parlato), per i positivi risultati raggiunti, è comunque da attribuire agli interpreti in toto e soprattutto allo straordinario Greg Kinnear  che si conferma ancora una volta come uno dei più accreditati e talentosi attori  di quella generazione di mezzo (nemmeno lui è giovanissimo ormai, essendo nato il 17 giugno del 1963)  non proprio di “primissimo piano” come notorietà, che meriterebbe “qualcosa di più” e di corrispondente ai propri effettivi meriti, di quello che invece normalmente raccoglie (e l’uscita “disastrosa di questa pellicola nelle nostre sale ne è una conferma). Lui è infatti uno di quei rari esempi che creano “dall’interno”, che entrano direttamente nella pelle del personaggio e ci si “annullano dentro”, senza piegarlo alla propria istrionicità mattatoriale, evitando così che ci sia poi una “matrice di fondo” che un po’ li imparenta tutti, nei risultati pratici, come spesso accade invece con certi “mostri sacri” unanimemente osannati. E’ molto più difficile “essere” senza prevaricare come fa Kinnear,  infatti, avere la discrezione pudica di trasferirsi nell’anima anziché accontentarsi dell’apparenza, ed è indubbiamente questa una dote preziosa e insolita che ricorda molte grosse glorie del passato che va a suo vanto e merito: l’attore che si adegua al carattere da rappresentare, e non viceversa, che ne riproduce – o meglio fa diventare sue - tutte le sfaccettature  e le introversioni psicologiche di un percorso di vita, ma senza mai “strafare” perché non ha bisogno di sentirsi dire quanto è bravo poiché sa di esserlo, è consapevole della sua grandezza che può mettere a totale servizio del risultato (che con lui è stato fino a questo momento sempre garantito, già dal suo esordio –cinematograficamente parlando – con il remake di Sabrina nella parte che fu di William Holden, ma che è diventato già sorprendente “creatività” - solo per citare i titoli forse più importanti del suo percorso artistico – nel successivo Qualcosa è cambiato dove si trovò a confrontarsi (e ne uscì quanto meno alla pari) con il virtuosismo mostruoso di Jack Nicholson e con  una attrice di rara finezza introspettiva come Helen Hunt, per non parlare del “disturbante” ritratto offertoci in Auto Focus di Paul Schrader, un altro titolo che ha subìto immeritati e incomprensibili ostracismi distributivi. Questa interpretazione maiuscola dell’umanità travagliata di un uomo in lotta, è dunque una ulteriore perla che si aggiunge al  già strabiliante curriculum di un attore eccelso, eclettico e monumentale come pochi altri.
Una gradita sorpresa (per quanto mi riguarda) è anche la prova  offerta da Lauren Graham che conoscevo fin qui solo “televisivamente parlando”, davvero bravissima nel ruolo della moglie delicata e tenera che non “ce la fa più” a sostenere il passo e le tensioni.
A posto anche Dermot Mulroney, un altro che lascia la presa troppo presto, come lo sono tutti gli altri caratteristi (della bravura di Alan Alda ho già accennato) che danno vita alle numerosissime figure di contorno.
Alla fine insomma, nonostante la cupezza del mio umore (e in virtù forse anche del messaggio positivista” della conclusione per lo meno sotto il profilo legale con i risarcimenti stratosferici che piovono meritatamente  sulle spalle “dell’eroe”) sono uscito un pò riappacificato se non con il mondo, almeno con me stesso, e questo è già stato molto positivo visto come si era “infilata” la serata. Devo allora ringraziare mc 5 per l’indiretto “suggerimento” oltre che gli artefici di questo compatto film – soprattutto gli interpreti – che, come ripeto pur non essendo “eccezionale”, merita una attenzione e  un rispetto di  gran lunga superiori a quegli che gli sono stati riservati” almeno qui da noi… non certo i quattro disattenti spettatori che  condividevano con me la sala sempre un po’ sbuffanti e antipaticamente assorti in “tutt’altro fare”,  dei quali a questo punto avrei persino fatto volentieri a meno.

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