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Solo un padre

Regia di Luca Lucini vedi scheda film

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La recensione su Solo un padre

di LorCio
4 stelle

Oh, andiamo al cinema?, propone Marianna. Eddai, sì. Poi co’ sto tempo cupo… Decidiamo di recarci al Massimo di Pescara, il più comodo per noi pendolari della provincia e il meglio collegato con il resto della città (la sala più bella rimane quella del Circus, ma la frequentano in pochi, peccato). Che ci sta al Massimo? Il film della Disney, quello del cane, Bolt, in 3D – ma qui non c’hanno gli occhialini; un film italiano appena uscito, sui ggggiovani, a quanto ho capito, Io non ci casco; e poi il film di Lucini. Ma Lucini chi, mi spavento, quello dei tremetrisopralcielo? Veramente?, esclama Margherita, che sta sempre un po’ sulle nuvole dopo aver lasciato Paolo. Vediamo il film di Argentero!, dice Chiara, che brontola sempre per chissà quale motivo. Quant’è bono Argentero, sentenzia Marianna, allupata quanto mai. Tre contro uno, e alla fine mi tocca vedè 'sto Solo un padre, alla sala 3, quella che sta in alto, al quarto piano. E vai con le rampe di scale, le mitologiche, precipitose, ardimentose scale del Massimo.

 

Salgo con agilità, da buon camminatore quale sono (ho pur sempre fatto il Monte Pizzuto nel 2002, 8 chilometri 8!, vado ripetendo – e basta co’ sto Monte Pizzuto, ce l’hai messo alla coccia!, si lamenta Chiara, e, forse, c’ha ragione), mentre le mie tre ancelle fanno fatica. Alla fine arriviamo a sta benedetta sala tre, e, colpo di scena, è vuota! Che bello, mi dico, e comincio a camminare per tutta la sala, che si sviluppa in profondità verso il basso. Ci piazziamo verso le ultime file, sbracati, occupando quattro cinque posti a testa. Ricordo solo una volta di risultare uno dei due presenti in sala: fu quando andai con Lorenzo “il roscio” a vedere Fascisti su Marte al Circus: un’esperienza che non auguro a nessuno. Insomma, Solo un padre inizia, e già capisco l’aria che tira: Marianna fa il commento audio al film, più che altro per celebrare la bonazzeria di Argentero. E quant’è bono qua, e quant’è bono lì, e mo’ me lo farei: a Marià, e basta, no?

 

Altri spettatori scocciatori: al Codice Da Vinci due rompiballe che decantavano la biblicità epica dell’opera di Brown e anticipavano lo sviluppo della storia. Ricordo che un altro spettatore si alzò minacciando: volete fare la fine del vecchio (il custode del Louvre, quello che viene ammazzato al principio)? Dopo un po’, Marianna si calma, e comincio a capire qualcosa di sto film: ci gira intorno parecchio, sembra non voler arrivare al dunque, ma alla fine sbotta: il problema è l’elaborazione del lutto. Ma non è solo un problema di Carlo-Argentero, ragazzo padre dermatologo, lo è anche dello spettatore: in questa elaborazione funebre non c’è molto approfondimento psicologico, ci si limita alla superficie del dolore. Carlo, poi, non è manco tanto credibile. O meglio, mi chiedo: ma com’è che in certo cinema italiano il/la protagonista è sempre un(’)esponente dell’alta borghesia? Qui il personaggio è un dermatologo affermato, ha una villa da far paura a quelle che Claudio Martelli collezionava sull’Appia, lavora in uno studio lindo e splendente, ha amici tutti puliti e economicamente sereni, corre tutte le mattine. E ha solo trent’anni o poco più: una minoranza che ha faticato moltissimo o campa della rendita dei padri.

 

Tralasciando il fattore credibilità, che talvolta al cinema va a farsi fottere (ma forse sta lì il bello di un determinato cinema), passiamo allo sviluppo della vicenda. E però il fatto è che non si riesce a sviluppare, almeno nel primo tempo. Perché? Alla ricerca di qualche motivazione. Uno: Diane Fleri compare troppe volte quasi quanto Bruno Vespa quando fa promozione al suo libro in ogni dove, non si capisce bene che ruolo voglia ricoprire, se quello di angelo di seconda classe (quindi non paragonabile a Vespa) o di rompiballe che non c’ha un kaiser da fare dalla mattina alla sera (fa la ricercatrice… dalla Francia in Italia… a fare ricerca in Italia?). Due: Anna Foglietta vuole palesemente farsi Argentero (e te credo!, annuisce Marianna, che ha negli occhi pura passione argenteriana pari a quella del personaggio della Foglietta), lui però è restio (però la Foglietta non è male, e mi piace anche come attrice), e prima di arrivare ad una conclusione del filone evasivo-sentimentale ce ne mettono; Argentero ha anche il tempo di pisciare sul gatto pettegolo della Foglietta – che si chiama Giulio, come l’ultimo ex – e di asciugare le proprie urine con l’accappatoio della donna; poi, se sti due chattano dalla mattina alla sera, quando diamine lavora Argentero?

 

Tre: appunto, e quando lavora il povero Argentero sclera, se la piglia col direttore di Camera cafè e con la paziente che si è fatta il butox; e sclera perché non riesce ad affrontare, nonostante non lo ammetta, il lutto della morte della moglie. Che poi non erano tutte rose e fiori con la cara estinta, anzi, erano sul punto di abbandonarsi se non avessero concepito la bambina. Tra l’altro, la bambina che interpreta il film si potrebbe contendere con Edwige Fenech il titolo di attrice con il più alto numero di docce consumate in un film all’attivo. La bimba compare più in acqua che in borghese, e sinceramente non ne riesco a capire il motivo: d’accordo che i lattanti vengono lavati con estrema regolarità, e, dal momento che non sospetto neppure il valore metaforico dell’acqua (tralascio gli accostamenti tra il mare e la libertà, l’acqua e il nascondiglio, forse pertinenti ma anche inadeguati nel contesto), non afferro esattamente il perché la sciacquino con così tanta frequenza.

 

Volendo, tornando al film in generale, lo si trova uno spunto interessante, per chi scrive anche molto interessante: il punto è che non ne esce un buon film. Tutto si sviluppa senza grande coraggio, in un’atmosfera un po’ smorta e un po’ sciapita, inventando tutto più o meno sul momento. Ad un certo punto spunta fuori pure la canzone dei REM, come si chiama? Ah, questa è la canzone di REM!, esclama Chiara. No, dai, i REM no… Ma lo sanno i REM che sono finiti in Solo un padre? Mah, boh, non me la ricordo come si chiama, però la conosco, la trovo intrigante, e col film di Lucini c’azzecca come un cavolo a merenda. C’è una bella scena, tuttavia, che (vorrebbe/potrebbe) fa(re) da spartiacque: l’indiretta dichiarazione d’amore attraverso l’esperimento sulla mappatura del cervello che Argentero fa a quello splendore di Diane Fleri, la cui erre in gola mi provoca godimenti di rara sensualità.

 

Da qui il film piglia una piega meno banale ma al contempo più arrangiata: il compleanno della bambina che sembra quello dell’Infanta di Spagna; la confessione di Argentero, roba a metà tra un romanzo di Dostoevskij e C’è posta per te; la ritrovata serenità della non più allupata Foglietta che si accontenta di Fabio Troiano, collega di Argentero; l’incendio di casa Fleri… E proprio l’incendio che mi ha incuriosito: Fleri è in fin di vita, Argentero salta sull’ambulanza, guarda caso la salva, ma… ma lascia la bambina da sola in macchina. E la bambina?, chiede Marianna, preoccupata di non vedere più Argentero in versione babbo (lo trova molto sexy). E la bambina?, si stupisce Chiara, che è troppo pragmatica per capire certe cose. E la bambina?, sbraita Margherita, che è docile di cuore e si mette subito a piangere temendo il peggio. Ma come si fa? Dico io: d’accordo che la fame fa fare i salti ma l’amore li fa fare più alti (questa l’ho sentita a C’eravamo tanto amati), ma come fai a lasciare la tua figlioletta, tra l’altro orfana di madre, da sola in macchina? E poi, l’ingenuo Argentero, chiama la Foglietta e Troiano a salvare la pupa, cioè quella che voleva farselo e quello che s’è fatto quella che voleva farsi Argentero.

 

La fine del film si risolve in un carosello di abbracci svolazzanti sulla spiaggia, e proietta padre e figlia verso un futuro migliore. Quant’è bono, continua a commentare Marianna, e le getto un’occhiata di scoraggiata disperazione: sei irrecuperabile, pontifico, senza paura. Allora, s’informano Chiara e Margherita, che mi attestano qualità di competente cinematografaro, t’è piaciuto? Mah, rispondo. Come mah?, si inalbera Marianna. Più che Solo un padre, le dico, mi sarebbe bastato “solo un film”, esagero. Lucini non ha fatto una porcata, ha semplicemente realizzato un film sbiadito e che non suscita molto interesse, nient’altro. Le luci si riaccendono, la sala è vuota, ci stiamo solo noi quattro. È un’immagine triste.

 

Forse, rifletto, il pubblico non è poi così scemo. Ha capito che Solo un padre se lo può vedere anche in televisione, bene che va se lo scarica da Internet. In fondo è un prodotto para-televisivo. Però una sala vuota è sempre un’immagine che ispira, almeno in me, una sincera tristezza. Usciamo, scendiamo le ripide scale, arriviamo al piano terra, non c’è proprio nessuno. Neanche il cane della Disney tira. È venerdì, d’accordo, però è sempre triste vedere un cinema vuoto. C’ho fame, ci informa Marianna, che è in dieta perenne dati i suoi ottanta e passa chili. A me fanno male i capelli, borbotto. Cosa? Niente, lasciate perdere. C’ho fame anch’io.

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