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Welcome to Dongmakgol

Regia di Kwang-Hyun Park vedi scheda film

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La recensione su Welcome to Dongmakgol

di joseba
6 stelle

1950, Guerra di Corea: in un isolato villaggio di montagna, il cui nome Dongmakgol ("vita senza preoccupazioni") è tutto un programma, giungono un pilota statunitense il cui aereo è precipitato nei dintorni, tre soldati nordcoreani rimasti tagliati fuori dal resto delle truppe in ritirata e due soldati sudcoreani altrettanto smarriti. Qui, dopo l'iniziale e inevitabile diffidenza (che porta alla distruzione delle riserve di grano), i militari si lasciano influenzare dall'atmosfera paciosa e bucolica del villaggio. Finché il comando americano, convinto che nella zona si annidi un focolaio di resistenza nordcoreana, decide di radere al suolo l'intera area... Che dire? Un film di impeccabile cerchiobottismo: gli abitanti del villaggio sono la stucchevole quintessenza della naïveté (non solo ignorano la guerra, ma sembrano totalmente privi di impulsi aggressivi), la distruzione accidentale degli approvvigionamenti anziché scatenare il giustificato risentimento dei "buoni selvaggi" fa da volano di pacificazione tra i due schieramenti nemici e l'ostilità reciproca dei militari si scioglie come neve al sole. Il ritratto idilliaco e tanto tanto colorato di Dongmakgol rischia di far venire l'orticaria insomma, infarcito com'è di premure, carinerie e ruffianerie varie. Ma, come prevedibile, c'è un ma, o meglio più di uno. In questo tripudio di ingenuità e candore, le psicologie dei personaggi principali sono cesellate con precisione (benché non esenti da una certa fissità), la resa dei cromatismi saturi e schioccanti dell'idillio è effettivamente preziosa e, soprattutto, le melodie avvolgenti di Joe Hisaishi fanno breccia anche nel cuore più corazzato. In altri termini, i pregi tecnici (caratterizzazione dei personaggi + brillantezza figurativa + musiche celestiali) fanno chiudere un occhio sull'estremismo filantropico del film, che con 8 milioni di spettatori è stato il secondo maggiore successo coreano del 2005 (a quattro lunghezze da "The King and the Clown", che però è uscito il 29 dicembre). Vale la pena riflettere ulteriormente sui motivi del successo di questa pellicola: oltre all'eccellenza tecnica ci sono infatti almeno altre due ragioni che ne hanno determinato la fortuna. Innanzitutto il fatto che la questione della divisione della Corea è trattata per la prima volta in chiave di commedia (a differenza dei drammatici "JSA" del 2000 e "Taegukgi" del 2004), in secondo e decisivo luogo perché offre agli spettatori la possibilità di superare agevolmente la rivalità ideologica risolvendola nel nucleo tematico della famiglia (valore supremo che proviene direttamente dalla tradizione confuciana e che attraversa verticalmente la penisola coreana). Tramite la descrizione della comunità incorrotta come un'ideale famiglia pronta ad accogliere i figli che errano (che sbagliano e che hanno smarrito il senso delle cose importanti), gli spettatori si sentono legittimati a condannare l'assurdità della scissione nazionale senza che questo metta in crisi il sistema tradizionale di valori. La grande famiglia come risoluzione del conflitto.

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