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Death in the Land of Encantos

Regia di Lav Diaz vedi scheda film

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La recensione su Death in the Land of Encantos

di alan smithee
10 stelle

IL CINEMA AI TEMPI DELLA QUARANTENA

Ora o mai più.... La quarantena ha almeno il lato positivo di permettere, per chi fosse interessato, di recuperare titoli "impegnativi" (certamente per quel che attiene la durata) come questo, se non buona parte di ciò che ancora resta da vedere del gran regista filippino Lav Diaz. 
Nel primo decennio del nuovo secolo e millennio, e precisamente alla fine del 2006, l'arrivo di un potente tifone chiamato Reming, associato alla eruzione di un vulcano comporta il riversamento in mare di così tanti detriti lavici che, trascinati dalla corrente, causano un cataclisma in grado di sommergere abitazioni e interi villaggi, procurando la morte di migliaia di persone colte di sorpresa dalla furia di acqua e fango.
Una troupe giornalistica sta effettuando delle interviste in loco, permettendoci di imbatterci, per mezzo del barcaiolo Teodoro, nel suo amico coetaneo e famoso poeta Benjamin Augusan, sopraggiunto in loco per rendersi conto della drammatica situazione in cui versa la sua terra natia.
Abbandonata la troupe, il regista si focalizza sui due giovani, a cui si aggiunge un terzo elemento, rappresentato dalla bella ed allora assai contesa Catalina, una scultrice di pietra lavica scampata al disastro, un tempo amante di entrambi i due suoi amici.
Tra i ricordi di una gioventù difficile ma, confronto alla situazione odierna, assai serena e piena di speranze, l'incontro tra i tre fa emergere diverse drammatiche situazioni, sia intime (la malattia ereditaria di Benjamin, colto da raptus di deliri di follia e in cura anche da esule in Russia, sintomi identici a quelli accusati dalla madre, ormai mancata drammaticamente da tempo), sia di stampo socio-politico, con la presa di coscienza di come la situazione di esule del poeta corrisponda alla situazione di molti intellettuali di sinistra costretti ad abbandonare il paese perché osteggiati fortemente dal regime militare al potere.
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Tra confessioni intime, richieste shoccanti di una eutanasia che scongiuri al poeta la triste fine di molti tra i suoi parenti, e le oggettive drammatiche situazioni della gente sopravvissuta al cataclisma, si consuma, in ben nove ore di pellicola (e non i "soli" 231 min erroneamente indicati nella scheda del film), una sorta di rito eucaristico di un uomo, preludio di una fine a cui, per forza di cose, è destinato un paese afflitto sia da frequenti avversità naturali, come terremoti, eruzioni e tifoni, sia da una situazione politica instabile in cui i concetto di "repubblica" si confonde in modo sinistramente attendibile con il concetto pratico di una dittatura che cerca in tutti i modi di ostacolare la libertà di pensiero e quella di esprimere giudizi antitetici a quelli di chi cavalca l'onda del comando.
Lav Diaz, qui impegnato in una delle sue opere cardine della propria ciclopica filmografia, conserva la capacità di attrarre con effetti ipnotici lo spettatore disposto a concederglisi, procedendo con un racconto che si struttura su una serie di sequenze cardine (in fondo non tante, sarannobuna quindicina in nove ore, ma tutte abbacinanti, stordenti, meravigliose, in grafo di coglierci sempre di sorpresa lasciandoci a bocca aperta), lunghe se non lunghissime, spesso a macchina fissa, in cui in qualche modo la macchina da presa si rivela il cardine su cui finisce per ruotare tutta la vicenda, ed in qualche modo la vita ed il trascorrere del tempo. E non viceversa. 
Quasi a voler ribaltare leggi cosmiche ed universali ormai considerate consuetudini concettuali consolidate o dogmi inutili da rimettere in discussione. 
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Grazie anche alla capacità ipnotica dei suoi tagli visivi perfetti, ove nulla appare per caso e in cui lentamente tutto si modifica con la naturalezza del tempo che scorre, procedendo in progressione sino a rendere un lontano e vago sfondo come il vero, autentico protagonista dell'intera ripresa lunga anche decine di minuti; grazie alla fotografia in un rigoroso, stupefacente bianco e nero che esalta l'asprezza di un territorio reso ancor più ostico dalla tragedia naturale che ne ha sconvolto tratti geografici così come esistenze e destini, Death in the land of Encantos conferma una volta in più la magistrale capacità narrativa di un autore che diventa estremo solo per l'intransigenza ed il coraggio di portare avanti la sua poetica narrativa che sfida il tempo e le convenzioni.
Una sfida che, dinanzi allo spettatore disposto ad accettarla, finisce per tramutarsi nel segreto in grado di addentrarsi nel fitto stimolante e generoso della coraggiosa arte narrativa dell'autore.
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In cambio della possibilità e disposizione/devozione a concedergli il tempo necessario per celebrare questo suo monumentale rito, si ottiene la chiave ideale ed opportuna, oltre che indispensabile, per entrare a far parte di un processo narrativo ed artistico complesso con cui Diaz, meglio di quasi qualunque altro autore di cinema, riesce a rendere solenne e definitivo un racconto, immune dalle tentazioni più diffuse e tipicamente "occidentali" inerenti la tanto apprezzata e per molti inevitabile ricerca di ritmo e di velocità.
Con Diaz il ritmo è scandito dai processi che regolano i destini del pianeta, con le sue meraviglie e le sue tragedie che si alternano dall'inizio fino alla fine, e questa sua regola inevitabile ed assoluta finisce per rendere magico e insuperabile il suo stile di fare cinema e di raccontare, così come spesso, al suo confronto, appaiono sterili e qualunque, gli stili narrativi essenzialmente vincolati alle ragioni del ritmo e dello spettacolo orchestrato e costretto come in una giostra che non è in grado di tendere all'universalità del mondo a cui apparteniamo.  
 
 
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