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Soffio

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su Soffio

di FilmTv Rivista
8 stelle

Il cantore della nuova incomunicabilità si chiama Kim Ki-duk e viene dalla Corea del sud. Ha girato quattordici lungometraggi in poco più di dieci anni, tutti film che partono da profonde lacerazioni. Quasi muti, si affidano alle immagini, crude e realistiche ma anche magiche e oniriche. In un afflato poetico che, finora, ha evitato accuratamente la retorica. Le sue opere sono variazioni sul tema dell'impossibilità di essere normali, sulla fatica di interagire col mondo, sulla sofferenza, sul masochismo atavico dell'uomo, sull'amore come forma alta di emancipazione. Soffio non fa differenza. Una moglie scopre il tradimento del marito e contemporaneamente - attraverso la televisione - il dramma di un condannato a morte che attende con dolore di essere ucciso. L'istinto la porta nel carcere dove il criminale è detenuto. E la sua sensibilità le consente di avvicinare il prigioniero con un approccio che lascia esterrefatti. Munita di carte da parati, di musica e di totale disponibilità, la donna entra nel parlatoio e comincia a cantare un inno alla primavera. Gli incontri si faranno ciclici, azzerando in pochi giorni lo scorrere delle stagioni. E così l'estate, con i ciliegi in fiore, e poi l'autunno e l'inverno... e ancora la primavera (giusto per citare un celebre titolo del percorso dell'autore sudcoreano). Le sorprendenti performance della giovane e la conseguente meraviglia del condannato a morte sono spiate, controllate, quasi "dirette" dal capo della prigione, che da una stanza buia controlla sul monitor ogni vagito, ogni nota, ogni bacio appassionato, ogni scambio corporale che, nel frattempo, i due hanno iniziato a regalarsi. Il "direttore d'orchestra" è proprio lui, Kim Ki-duk, regista occulto cinico e guardone (come tutti i registi), perfido e severo (ferma spesso sul più bello gli incontri, non sopportando cotanto trasporto), ma alla fine anche lui dovrà cedere, commuovendosi fino alla lacrime. Una perfetta metafora del suo cinema, dei suoi personaggi, del suo stato d'animo, in perenne ricerca di filtri, di narrazioni col preservativo, di spirali uterine, che però a un certo punto vengono strappati, divelti, frantumati dal contatto, dall'esposione dei sentimenti, dall'impellenza del sentire le cose. Un'altra opera straordinaria, dunque, dell'autore più innovativo (anche sul piano prettamente formale) degli ultimi due lustri. Quasi un sequel di Ferro 3 - La casa vuota, dove la leggerezza del tocco conosce le inesorabili leggi della vita.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 36 del 2007

Autore: Aldo Fittante

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