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Soffio

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su Soffio

di ROTOTOM
8 stelle

Una giovane madre in crisi coniugale (il marito la tradisce) si innamora di un detenuto condannato a morte che ha tentato di suicidarsi. Riesce a incontrarlo nel parlatorio sconvolgendo i suoi sentimenti e suscitando reazioni nei suoi compagni di cella, uno dei quali ne è geloso.

Un parlatoio carcerario si trasforma in un inno alla primavera in cui si succedono le stagioni del cuore. Primavera, estate, inverno…e ancora primavera, un soffio, un respiro vitale in un luogo deputato alla riduzione della libertà. Il carcere che richiama alla memoria la splendida “leggerezza” dell’anima di Tae-Suk (Ferro 3-La casa vuota) che impara a scomparire alla vista degli umani non degni. Lacerazioni che rendono riconoscibili le solitudini di anime mutilate (Seom-L’isola). In Soffio, film di rigorosa rarefazione e disperata eleganza formale, Kim Ki Duk ritorna a parlare di incomunicabilità, o meglio della potente necessità di un tipo di comunicazione che imprima ai suoi personaggi l’inerzia necessaria per esistere. Comunicazione che avviene su piani e codici completamente diversi, con ideogrammi di sorprendente valore privato. Il silenzio in luogo della parola. Il dolore masochistico dell’amore. L’impossibilità di essere normali.
La libertà per Kim Ki Duk è uno stato della mente, così come nel suo capolavoro Ferro 3 – La casa vuota la necessità del non- esistere era funzionale alla realizzazione dell’unione prima di tutto spirituale, in Soffio il luogo degli incontri d’amore tra i due amanti, l’uno carcerato l’altra moglie tradita, da luogo di restrizione della libertà diventa non-luogo di libertà totale, di amore incondizionato.
Il capo della sorveglianza, attraverso il monitor assiste agli incontri dei due amanti, sublimando su di sé le emozioni che filtrano da quello spazio normalmente celato allo sguardo dei liberi e ne giustifica l’esistenza soffrendone ogni istante, esattamente come lo sguardo dello spettatore rende plausibile e vera l’esistenza del film al quale sta assistendo.
Questa sublime translazione dello sguardo attore-spettatore non è a caso, il capo della sorveglianza è infatti interpretato dal regista del film, Kim Ki Duk che realmente “dirige” ogni incontro, ogni bacio, ogni simbolo di libertà che Jang e Yeon si scambiano, facendosi egli stesso metafora vivente del proprio sguardo cinematografico.
Il vero prigioniero è proprio lui, relegato a ruolo di guardone di sentimenti che si frantumano e si re-impastano al contatto dei corpi, allo scambio del respiro-anima tra esseri umani legati prima di tutto dalla voglia di essere un unico, vitale essere intero. L’arrendersi emotivo del guardiano/regista, scopre l’atavica consapevolezza della solitudine dell’essere umano così imprigionato dalla solidità dei muri che costruisce e dei luoghi che battezza come liberi, da non riconoscere, se non attraverso il dolore, che con la libertà i luoghi non c’entrano proprio nulla.

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