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Io, grande cacciatore

Regia di Anthony Harvey vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Io, grande cacciatore

di dedo
8 stelle

“Per tanto tempo, prima dell’inizio dei miti, tutto era primitivo, indefinito. Ma in quell’immenso, illimitato spazio, l’uomo aveva un alleato: il cavallo.”


Dopo i classici e gli spaghetti western, Anthony Harvey inaugura un terzo filone del genere: quello inglese. Girato interamente nello Stato di Durango (Messico), si avvale della capacità fotografica di Billy Williams, bella ed idonea, sfumata sul marroncino,  ad illustrare l’arido territorio dell’ambiente in cui si svolge la storia. Solo un inglese poteva incentrare un film western sulla bellezza, eleganza, velocità di uno stallone, di un biancore quasi mistico, oggetto di desiderio sfrenato dei protagonisti.



Siamo attorno al 1830. E’ il tempo in cui per un cavallo si può anche uccidere. L’indiano Kiowa, Toro Bianco (Sam Watherson), assieme a pochi altri compagni,  durante un lungo percorso di razzie, aggredisce un venditore di pelli, Comanche, che monta una splendida bestia, bianca, agile. E’ un colpo di fulmine: vuole a tutti i costi, possedere quel cavallo, ma il Comanche, pur ferito a morte, gli sfugge contando sulla straordinaria velocità del quadrupede Ala d’Aquila (dal titolo originale del film). Seguendone le tracce incontra anche i compratori, Harry e Pike (rispettivamente Harvey Keytel e Marin Sheen). Il primo più posato ed attento, il secondo un balordo cacciato dall’esercito per furto. Toro Bianco razzia tutti i loro averi ed uccide Harry. Pike cerca di seguire i ladri. Sul percorso, Toro Bianco incappa in un funerale. Lo blocca, lo saccheggia e si porta dietro una bella, giovane, bionda donna irlandese: Judith (Caroline Langris). Tutto l’episodio è descritto in modo eccellente. Ottima la sequenza della sfida con gli sguardi di due forti personalità: Toro Bianco e la neo-vedova. Nel frattempo Pike, fortunosamente, mette le mani su Ala d’Aquila. E’ felice del possesso. Si sente invulnerabile contando sulla velocità del cavallo.



Toro Bianco prosegue il cammino per prendersi a sua volta il cavallo e, con un trucco, ci riesce. Pike segue agevolmente le sue tracce. Si sente come uno a cui è stata appena rubata la Maserati. Non demorde. Il Kiowa, che nel frattempo prova una spiccata simpatia per Judith, è consapevole di essere inseguito, rallentato dal carico, e comincia ad alleggerirsi del bottino prezioso, considerato meno prezioso della donna e del cavallo, apertamente, con la speranza di liberarsi degli inseguitori (nel frattempo si sono aggiunti due messicani inviati dalla hacienda, ove avrebbe dovuta essere portata la salma). Se questo stratagemma ha effetto sull’avidità dei messicani, non scuote Pike, che prosegue nell’inseguimento. Lo scontro è inevitabile: ambedue i contendenti rimangono feriti, ma non demordono. A Toro Bianco rimane la scelta: tenere la donna od il cavallo. Non ha dubbi. Lascia la donna. Ma neppure Pike acceta lo scambio e nell’ultimo combattimento fra i due, l’Apache riesce a vincere ed umiliare il bianco. Ma non uccide Pike, non ne ha bisogno. Con l’ultima frase “Tu piccolo uomo bianco Io, grande cacciatore”, si allontana velocemente nella pianura, arida, al galoppo, sollevando una lunga e ben visibile scia di polvere.



Harvey, basandosi su un soggetto di Michael Syson, riesce a trasferirlo con distaccata obbiettività in immagini, attente e curate, anche nei particolari, aiutato dallo screenplay John Briley. Offre uno spettacolo che, pur gravato da alcuni momenti di stanca, riesce ad avvincere lo spettatore. C’è un certo misticismo, di alone epico, nel proporre come soggetto un quadrupede di straordinaria bellezza, anomalo per il suo intenso biancore, unico, decisivo nella scelta della scala dei valori che i due uomini valutano. Inoltre è la prima volta che un bianco perde il confronto con un indiano. Non ricorre ai soliti stereotipi legati ad un western. Senza fare una netta separazione fra “buoni” e “cattivi”, i personaggi non appaiono né di un tipo, né dell’altro. sono solamente esseri umani in lotta per la sopravvivenza, con l’ossessione di entrare in possesso di un cavallo eccezionale. E’ un peccato che il film sia praticamente sconosciuto perché, oltre ad offrire una spettacolare visione dell’ambiente selvaggio ed immenso in cui si svolge la storia,  pone l’accento su quali possono essere i valori etici in funzione dell’ambiente e del genere di vita praticato. Lodevole la prestazione del cast ed in particolare dei due attori principali. Musica  di Marc Wilkinson, attenta, vivace, adattata perfettamente a sottolineare i momenti principali del film. Voto 7,5

Sulla colonna sonora

Ottima, non invadente, confacente, di sostegno adeguato

Su Anthony Harvey

Attenta, curata, evita stereotipi del genere westerm.

Su Martin Sheen

Buona prestazione come balordo, ma con una grande ostinazione.

Su Sam Waterston

Anche se la fisionomia poco si addice ad un indiano, riesce ad esprimersi, più che con le parole (poche) con lo sguardo ed il volto. Ottima prestazione.

Su Harvey Keitel

Brevissima la parte che deve sostenere, ma lo fa con grande capacità.

Su Stéphane Audran

Copre efficacemente il suo ruolo. Bella e combattiva

Su Caroline Langrishe

Breve presenza, ma intensa e di forte personalità.

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