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Time

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su Time

di Aquilant
6 stelle

Prova a colpire qua e là alla cieca in modo più che imbarazzante un Kim Ki-duk in evidente stasi creativa, non trovando di meglio che scomodare di sfuggita perfino Magritte e Ricasso, una coppia di creatori d’immagini alquanto distanti dalle sue solite tematiche, ed attingendo visibilmente dalle atmosfere pirandelliane (e la sequenza finale lo dimostra eloquentemente) alcuni spunti base per un gioco delle parti denso di macroscopica esasperazione onde portare a buon fine questo “Time” che senza dubbio marca una battuta d’arresto nell’ambito della sua esaltante carriera.
Una, nessuna o centomila sembrano essere le facce che Ji-woo, la protagonista bifronte, va scandagliando quasi alla cieca nella sua concitata corsa ad ostacoli scandita da un susseguirsi incalzante di tappe di lucida follia. E l’andamento perfettamente (e furbescamente) ciclico della narrazione, abilissima ad allargare a macchia d’olio l’idea filmica di base esasperando all’inverosimile il conflitto di partenza, ci riporta all’emblema perentoriamente rivelatore del reale, che in virtù di una fortuita caduta a terra del suo guscio a forma di cornice si rivela in tutta la sua originaria essenza, smascherando involontariamente di botto una forzata ed ingannevole identità, previa ovvia complicità della macchina da presa. Ed emerge un vero e proprio atto d’accusa nei confronti di colei che s’illude di raggirare l’apatica essenza di una ciclicità quotidiana tutt’altro che rassicurante e per lo più avvezza a nutrirsi giorno per giorno della propria indifferenza, tramite l’uso di un mutamento interiore traumaticamente e masochisticamente indotto che non contribuirà in ogni caso a scrostare dall’armatura interna la ruggine del tempo che ogni cosa corrode implacabilmente, andando in particolar modo ad intaccare la corazza tutt’altro che coriacea dei sentimenti individuali resi caparbiamente isterici dalla martellante tirannia della noia.
Ed è più che scoperto a questo punto l’intento dell’ultima opera di Kim Ki-duk, che appoggiandosi ad un evidente paradosso (mutazione del viso intesa come susseguente mutazione del sentimento) o per meglio dire, forzando in modo insolito una situazione che si trascina stancamente allo stesso modo del tran tran quotidiano di una coppia allo sbando passata al microscopio, perviene ad una conclusione sconsolatamente priva di nerbo, alla ricerca disperata di appigli, magari a forma di mani gigantesche cui aggrapparsi (con la metafora che si ritorce idealmente contro il suo ideatore).
Ed ecco che si rende indispensabile l’agognato ricorso alla situazione di partenza, affondando in sovrappiù in un diluvio di volti la soluzione di un enigma indotto a tutto discapito di una consequenzialità narrativa che specie nell’ultima mezz’ora viene ripetutamente infarcita di situazioni ad effetto, probabilmente per mascherare la gracilità di un impianto che minaccia di scricchiolare da un momento all’altro qualora privato delle continue azioni di pompieraggio autoriali.
E se nella penultima opera dell’autore, “L’arco” la magia degli sguardi, l’alchimia del silenzio e l’aleggiare inquieto di un mistero racchiuso a pelo d’acqua contribuivano a supplire in maniera più che adeguata all’affiorare di una certa carenza narrativa, “Time” al contrario si rende molto più vulnerabile, pienamente esposto ai venti dell’insignificanza in virtù di quella sua nudità strutturale che l’uso frequente di simboli e metafore (ed a tale proposito le continue ed affannose sequenze nel Parco delle Sculture la dicono molto lunga) contribuiscono a rendere sempre più scoperta.
E di conseguenza il tema del rapporto di coppia, approdo sicuro in periodi di stanca, deborda da ogni angolo del fotogramma e viene mostrato in modo talmente pervasivo da apparire addirittura ridondante e finendo col sovraccaricare oltremodo la vicenda di una simbologia a senso unico non alternato che fagocita ogni minimo respiro dei protagonisti del dramma, conducendo il tutto ad una deriva narrativa laddove solamente una serie di colpi di scena forzatamente indotti è in grado di condurre artificialmente ad una certa elevazione il tono dell’assieme.
E i momenti magici di “Ferro 3” e di “Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera” appaiono ormai lontani, laddove ogni minima sequenza andava ad armonizzarsi alla perfezione nel contesto e ciascun tassello narrativo si incastrava alla perfezione col successivo e dove la crudezza delle prime opere andava diluendosi o per meglio dire concentrandosi tramite un misuratissimo dosaggio autoriale in pochi ma eloquenti episodi che scostavano leggermente il coperchio del Vaso di Pandora per offrici un piccolo ma eloquente saggio di una dirompente capacità effluviale.
Ma non avrà certo bisogno il regista di cambiare faccia per porre un discreto argine alle tracce del tempo che osano ordire una congiura nei confronti della sua creatività. Probabilmente gli basterà scrutarsi al suo interno per addivenire ad una seria ed oculata riflessione critica nei confronti delle sue ultime scelte creative e la ruota del tempo potrà cominciare per lui a ruotare all’incontrario.

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