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L'ascesa

Regia di Larisa Shepitko vedi scheda film

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La recensione su L'ascesa

di Azrael
9 stelle

Lascesa di L. Shepitko è in primo luogo un’indagine sull’uomo e sul rapporto tra coscienza e fede. Ma anche un’interrogazione allo spettatore, che viene invitato, attraverso un intricato gioco di sguardi e primi piani, ad una vera e propria mimesi con il soggetto in scena.Alla ricerca di una verità superiore, che rimane però inafferrabile, o meglio intrasponibile su schermo. Proprio questo inafferrabile è quello che in realtà il film ricerca, e che vuole mettere in scena.

 

Prima parte: fango, neve, sangue. La terra, la fatica, la crudezza della guerra. La secchezza dello stile e delle immagini. Ogni scalata (ascesa) parte da terra (in senso letterale e figurato). La prima parte è quella propriamente umana, la trasposizione della verità terrena. La macchina da presa si rotola nel fango inseguendo i soggettinel freddo e nella neve. Si percepisce la sofferenza materiale dei protagonisti/attori, forzati in una condizione tale da, parole della stessa regista, “sentire l’inverno fino alle loro cellule”. Il processo di ripresa viene in questo modo pianificato, in modo tale da favorire un’immersione graduale nei personaggi. Prima con una recitazione più semplice in senso psicologico, poi progressivamente verso vette spirituali degne di Tarkovskij e Dreyer.

 

L’eleganza della regia, che gravitain primo luogo intorno alprimo piano, giocando con lo sguardo, sia del soggetto che dello spettatore. Come nella scena d’apertura(una lunga sequenza di sguardi rivolti direttamente alla camera), che fungeda invito a chi guarda, una richiesta di partecipazione attiva, interrogando su quanto accade. Se il cinema è arte dello sguardo, la regia del film ha una struttura molto stratificata in questo senso. Chi guardasi ritrova in condizione di osservatore nei confronti dello sguardo. Gli occhi perforanti di Sotnikov, dispersi e glaciali, fissi su di un punto (probabile ripresa di certi motivi del muto), ora rivolti ad un indefinito orizzonte. Il nulla, la nebbia, rivela quello che l’uomo può concretamente osservare, una macchia sul nulla che si perde nella nebbia invernale, tra vacuità devastazione. Losguardo di Sotnikov diventa così un prolungamento di quello dello spettatore stesso. Ciò a cui è rivolto rimane però insondabile. 

La scena dei rami spogli e della luna (il gesto di scuotere con disgusto i rami degli alberi, alla ricerca di un qualcosa altro che possa dare speranza, poi la soggettiva sulla luna nel cielo senza nuvole), segna la transizione. Nella trasposizione del sacro la regista sceglie l’approccio del “non-visto”, attraverso il suo diretto opposto: l’uomo, la terra. Che funge da filtro anche per chi guarda.Una vertigine tra alto e basso presente per tutto il film.

 

L’ascesa è un voto alla morte, un sacrificio. Il dialogo del primo interrogatorio di Sotnikov chiarisce il discorsosulla condizione umana. L’ex compatriota collaborazionista segueuna forma di nichilismo, che è arrendevolezza di fronte alla paura. Sotnikov rimane fedele ad una forza che rimane sconosciuta, l’accettazione dell’essere nulla permette di elevarsi a qualcosa di più. Al contrario, il compagno Rybak farà un percorso opposto, che culminerà nel tentato suicidio. Sotnikov si tramutain una figura inumananel suo voto ascetico, spaventando alleati e nemici. Rybak rappresenta invece l’uomo in quanto tale: il bisogno di salvarsi la vita, lo spirito di autoconservazione. Lo spettatore, inevitabilmente, si rispecchia in lui. In questo senso il film interroga lo spettatore. Difficilmente si riesce a fare la stessa scelta che fa Sotnikov. L’essere umano, nella sua dimensione terrena, è quello che vuole salvarsi la vita ed evitare le sofferenze. L'immedesimazione più immediata è quella con la parte debole, mentre la parte forte non è comprensibile.

 

I diversi piani esistenziali dell’uomo vengono passati al vaglio uno ad uno. Sotnikov lotta con il desiderio di morire, di mettere fine alla sofferenza. Alla fine decide di sopravvivere, per poi morire, salvando i compagni. Rybak al contrario si salva la vita, ma rimane inevitabilmente intrappolato nel piano terreno, cedendo alla paura. Un film che parla al cuore dell’uomo. Dalla carne e dal fango, al cielo, alla luna, a qualcosa oltre, a cui è rivolto lo sguardo. E forse spaventa. 

La fede, quindi Dio, è un sicuro ancoraggio. Ma è un fine che ogni uomo ritrova unicamente in se stesso. Rifuggendo tentativi di comprensione razionale, accettando l’assurdo. Il rapporto con la rivelazione è quindi soggettivo, in solitudine con Dio. L’infinito si rivela nel finito, un’incarnazione del divino nell’umano. Di nuovo la dicotomia tra alto e basso, tra orrore e rivelazione. Tra coscienza e fede. Il male nasce nell’animo dell’uomo, che non ha il coraggio di alzarsi dallo “strisciare nella merda”(espressione del film). Allora si impone una forza distruttiva, o auto-distruttiva. Si deve dunque passare attraverso una forma di nichilismo, incentrata sul dubbio, per giungere poi alla salvezza. "Se la verità non è in Cristo, meglio comunque Cristo della verità", come insegnal’esempio dostoevskianoLo schierarsi dalla parte del protagonista, cercando di comprenderlo, è quindi un atto di fede che lo spettatore deve compiere attivamente. 

 

Il tradimento,il patriottismo, il sorriso finale al bambino, sul plotone d’esecuzione, come auspicio di fede per il futuro dell’URSS. Il soggetto rimaneperò l’uomo, più che la guerra (a differenza dell’orrore estetizzante di Va e vedi). Un’interrogazione sulla natura umana. Il film è uno specchio nei confronti dell’uomo-spettatore: un quesito, un interrogatorio (proprio come quello di Sotnikov), rivolto verso noi stessi. Grande cinema. 

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