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La kermesse eroica

Regia di Jacques Feyder vedi scheda film

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La recensione su La kermesse eroica

di spopola
8 stelle

Un raro, congeniale incontro di collaboratori, ciascuno consapevole dei limiti e del valore del proprio compito, nella chiave stilistica proposta dal regista, ha creato quest'opera che può dirsi il trionfo dell'armonia e del buongusto. Premio per la miglior regia alla IV Mostra del Cinema di Venezia.

Il film di Feyder è indubitabilmente un classico del cinema francese prebellico che vinse anche il meritatissimo premio per la migliore regia alla IV Mostra del cinema di Venezia, ma che secondo il Mereghetti (alle volte proprio non riesco a comprendere da dove nascano certi incomprensibili ripensamenti “svalutativi” di riletture postume leggermente prevenute come questa)  lascia un po’ troppo a desiderare nel ritmo e nelle invenzioni narrative (la sceneggiatura, realizzata con la collaborazione per i dialoghi di Bernard Zimmer, porta l’autorevole firma di Charles Spaark) un “difetto” tutt’altro che innocuo che lo relega, come considerazione finale poco oltre la sufficienza “creativa” (il voto è “soltanto” di due stellette e mezzo).

Io invece concordo (ancora oggi) con Sergio Frosali che lo definì al contrario un raro, congeniale incontro di collaboratori, ciascuno consapevole dei limiti e del valore del proprio compito che, nella chiave stilistica proposta dal regista, diventa un’opera di rara omogeneità che può definirsi come il trionfo dell’armonia e del buon gusto (invenzioni narrative comprese).

Lo sfarzoso e infallibile divertimento di una commedia  che  si trasforma in una ironica e scanzonata pochade, “leggera” soltanto restando all’analisi in superficie degli eventi narrati (non a caso il film fu proibito da Goebbels, e di fatto censurato  in Francia durante l’ultima guerra, per le possibili interpretazioni pacifiste che ne potevano derivare, e fu considerato addirittura “scandaloso” in Belgio a causa delle sue tematiche protofemministe ritenute un po’ troppo permissive) ha uno straordinario bilanciamento formale che regge molto bene l’usura del tempo e non diventa   mai uno sterile esercizio di stile fine a se stesso.

Giusto parlare di “armonia” dunque: armonia di composizione proprio nel fluire e fondersi fra loro dei singoli elementi espressivi come sceneggiatura, fotografia, scenografia, recitazione, commento musicale, ciascuno sorretto da quel gusto tutto francese  pieno di malizioso brio, ma sempre equilibratissimo nella dosatura dei toni;  armonia nell’architettura generale dell’opera che evidenzia sensibilità e buon gusto in ogni particolare.

Il soggetto è di carattere “storico” (ambientato nel 1916 in un piccolo centro delle Fiandre, Boom, nel momento “cruciale” dell’arrivo dell’esercito “invasore” spagnolo guidato dal duca d’Olivares, con le conseguenti reazioni comportamentali contrapposte degli abitanti e delle autorità cittadine) ma tutt’altro che farraginoso e “ingessato”, sorretto e vivacizzato com’è da una spumeggiante sceneggiatura (ripeto: non ci ravviso proprio niente dei difetti evidenziati dal Mereghetti) e da un dialogo  pieno di humor: aulico laddove è necessario, proprio in contrapposizione al tono generale  piccolo borghese dell’impianto. Del tutto esente comunque la tentazione “parodistica”: l’umorismo è salace e graffiante e se qualche piccolissimo peccato gli si può imputare, questo va circoscritto  a una forse un tantino accentuata “venatura” nostalgica per un’epoca lontana e  “leggermente” idealizzata.

La scenografia poi (vero e proprio punto di forza con i costumi anche per il Mereghetti, che non ne può oggettivamente disconoscere il valore) è  importante, sfarzosa e vitale (vi si “respira” l’aria fiamminga dei riferimenti pittorici a Breughel e Vermeer), per nulla teatraleggiante , né dal sapore stantio freddo e  un po’ museale delle stampe d’epoca. Tutt’altro che di impianto accademico, risulta al contrario così vivida e naturale da proiettarci direttamente “dentro le cose, nelle vie e nelle case” di una posata tranquillità borghese, in luoghi reali “riconosciuti” e ritrovati immutati  nel tempo, fra i placidi campi e i calmi canali quali sono rimasti ancora oggi, senza che nemmeno l’architettura della città ed i suoi ambienti interni siano stati artatamente ricostruiti, o riadattati con abbellimenti strutturali (e il risultato straordinario del lavoro creativo è dovuto a un team operativo che unisce il prestigio dell’eccellenza di Lazare Meerson, a quello altrettanto “superiore” di Alexandre Trauner e Georges Walkhevitch, suoi insostituibili collaboratori in questa stimolante circostanza). I costumi (di G. K Benda)  sono a loro volta sontuosi, ma non carnevaleschi, perfettamente allineati alle intenzioni registiche  (il senso di ascendenza fortemente pittorica dell’insieme) che grazie anche all’ausilio della splendida fotografia di Harry Stradling e Luois Page, hanno contributo a trovare con una sintonia bilanciata  molto lontana da un intellettualistico e sterile vezzo di “esercitazione stilistica”, l’intima ispirazione suggerita proprio dalle esigenze narrative, e di reinventare così le vicende del proprio paese e delle proprie genti totalmente calate nel clima degli anni di riferimento, proprio come lo immaginiamo non solo ammirando i quadri dei due pittori sopra menzionati, ma anche quelli altrettanto significativi dei Jordaens, dei Rembrandt e degli Hals, mediando cioè il passaggio dalla staticità delle tele alla vivace mobilità in movimento dello schermo con assoluta efficacia e precisione e soprattutto lasciandone inalterato il senso.

E’ interessante e singolare inoltre anche il rispetto dei canoni tradizionali dell’unità di luogo e di tempo (tutto si svolge “dentro” lo spazio deputato del paese, nell’arco di ventiquattr’ore): la frammentarietà degli episodi è ricondotta così a sua volta  ad  un’“armonia” quasi corale, ma con il giusto ritmo cinematografico che rende dinamica la percezione e con la stessa attenzione sia all’episodio principale che ai tanti secondari e più marginali che gli fanno corona, tutti curati con la necessaria considerazione per esaltarne il bonario candore, la loro malizia e gli equivoci sottintesi che si portano appresso.

Ed è proprio questo tono tutto particolare, quello appunto con il quale Feyder ha trattato la materia, a fare di questo film un’opera unica, che si pone davvero al di fuori di ogni “riconosciuta” corrente, anche di quelle di maggiore influenza  (accreditabili ai Clair e ai Lubitsch , tanto per intenderci)  e resta ancora oggi inimitata e forse inimitabile in quel suo essere un inno alla vita – scappatelle coniugali comprese - dove l’originario spunto pacifista riesce a traslarsi però in una garbata esaltazione di pseudo” prevaricazione femminista, perché qui le donne (e cito ancora il Mereghetti) si dimostrano più coraggiose, più intraprendenti e anche più furbe degli uomini.

Ottimamente adeguata anche la recitazione di tutti gli interpreti (in primo luogo proprio quella di François Rosay nel ruolo della moglie del Borgomastro, attrice di forte impatto e carismatica presenza, utilizzata dal regista – unica del cast originale - anche per la versione tedesca girata in contemporanea, come spesso accadeva in quegli anni).

La trama

L’azione si svolge in Fiandra nel 1616. Nella tranquilla cittadina di Boom si stanno ultimando i preparativi per la Kermesse,festa tradizionale della città. In casa del Borgomastro fervono i preparativi per il pranzo della sera e Siska, la figlia del Borgomastro, aiuta la madre. La fanciulla si è segretamente fidanzata col giovane pittore Julian Breughel, ma teme che il padre non voglia dare l’assenso alle nozze; la madre però le assicura il suo, ricordando il matrimonio di convenienza che ella dovette fare con colui che adesso è il primo cittadino di Boom. Nella sala del comune i consiglieri siedono in posa per farsi ritrarre dal giovane pittore. Il primo consigliere che porta lo stendardo della città, chiede nell’occasione al Borgomastro la mano della figlia; costui contratta a suon di buoi e di maiali il consenso, che infine accorda. Anche Breughel si fa avanti per chiedere la mano di Siska, ma ne ottenete un deciso rifiuto. Entra frattanto a galoppo nella città, seminando lo spavento, un messaggero; risoluto penetra nella sala del consiglio e getta una pergamena sul tavolo degli attoniti consiglieri, andandosene come era venuto. Viene chiamato il Borgomastro e aperto il plico: un esercito spagnolo chiede asilo per una notte nella città. Passa nella mente degli atterriti consiglieri la visione degli orrori altre volte compiuti dagli spagnoli in analoghe occasioni. Ma il Borgomastro ha un piano per scongiurare il pericolo: si fingerà morto sperando che gli spagnoli vogliano almeno rispettare il dolore dei cittadini in lutto. Ma la moglie del Borgomastro, adirata per tanta viltà, chiama a raccolta le donne e si assume in prima persona il compito di salvare la città e i suoi abitanti. All’arrivo degli spagnoli, va loro incontro con le altre donne, offrendo le chiavi della città, mentre i mariti se ne stanno rintanati  per la paura. Accolgono così con le migliori premure e attenzioni la soldataglia e i suoi ufficiali, albergandoli nelle loro case. Il comandante, duca di Olivares, è naturalmente ospite nella casa del Borgomastro. Egli rende il dovuto omaggio alle “spoglie” del presunto defunto, e si abbandona la sera col suo seguito ai piaceri della mensa riccamente imbandita preparata dalla Borgomastra. Poi il chiaro di luna risveglia la galanteria del duca e gli ardori non ancora sopiti della donna, la quale però approfitta della buona  disposizione del duca per fargli ordinare le nozze di Siska col suo innamorato pittore, troncando le discussioni che già iniziavano a prendere copro nella camera del “morto” nel disappunto costernato del già ufficiale promesso sposo” che nel suo ruolo di primo consigliere, è costretto a stendere l’atto di matrimonio fra Siska e il rivale. Poi la notte: nella casa del Borgomastro tutto è silenzio, ma proprio questo silenzio impensierisce il finto morto che manda a cercare la moglie, che sta in effetti salendo alle stanze superiori che ospitano il duca. Il tradimento appare dunque certo e il Borgomastro organizza per questo una sorpresa  per cogliere in flagrante la moglie infedele, che era invece salita a dar la buonanotte alla figlia più piccola. All’alba fra i baci e le lacrime dei cittadini di Boom, le truppe si radunano per la partenza, in premio per la gentile accoglienza, la città è esonerata dal duca dal pagamento delle tasse per un anno. “E’ all’eroismo del suo Borgomastro – dice la moglie parlando alla folla plaudente –che la città deve questo privilegio straordinario”… mentre intanto volge uno sguardo amaro e colmo di rimpianto al duca che si allontana alla testa delle sue truppe.

Jacques Feyder

Jacques Feyder (pseudonimo di Jacques Frédérix) nacque a Ixelles (Belgio) il 21 luglio del 1888. Dal 1912 al 1914 esercitò la professione dell’attore recitando in film di Feuillade, Ravel, Burguet, ecc. Nel 1915 diventò a sua volta regista, dopo essere stato assistente di Gaston Ravel e Charles Burguet. Lavorò soprattutto in Francia, ma diresse alcuni film anche negli Stati Uniti (fu a Hollywood dal 1929 al 1932), in Inghilterra, Germania e Svizzera. Scrisse il soggetto e la sceneggiatura di quasi tutti i suoi film. Ebbe spesso come collaboratori alla sceneggiatura Charles Spaak, e come assistente alla regia in ben quattro film addirittura Marcel Carné. Il suo scenografo preferito fu Meersen, la sua attrice preferita,  la Rosay, che diventò sua moglie. Morì il 25 maggio 1948 in Svizzera, a Rive de Pragins nel cantone di Vaud.

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