Regia di Sam Mendes vedi scheda film
Tra i registi più sopravvalutati degli ultimi 20 anni c'è Sam Mendes, che sin dall'osannato esordio con American Beauty (1999), é stato salutato come un genio e un autore di riferimento, quando in realtà è un mestierante furbetto, che nasconde il suo vuoto tramite la forma onaistica, le cui abilità tecniche sono state falsate dai direttori della fotografia Conrad L. Hall e poi da Roger Deakins, senza questi due mostri si capirebbe subito che Sam Mendes non vale una cippa di niente, quindi se ne vede bene dal privarsene.
Dopo la furbissima commedia nera acchiappa oscar e il più che discreto Era mio Padre (2002) con il grande Paul Newman, Mendes decide di giocare la carta del film di guerra con ambizioni sociologiche guardando ai grandi classici, come Apocalipse Now di Francis Ford Coppola (1979) e Full Metal Jacket di Stanley Kubrick (1987), quest'ultimo citato nel pessimo incipit iniziale, dove il regista ha capito solo gli insulti del sergente Hartmann, ma non la mentalità militaresca insita nella sua mente, confeziona una primissima parte non solo molto derivativa, ma anche scialba, dove assistiamo all'addestramento di Anthony Swofford (Jake Gyllenhaal) sotto la supervisione del sergente maggiore Sykes (Jamie Fox), finché non diventa un tiratore scelto, partendo con il suo plotone in Arabia Saudita, in attesa di entrare in azione contro le truppe Irachene che hanno da poco invaso il Kuwait, dando poi il via a quella che sarà conosciuta come la prima guerra del golfo.
Alcuni hanno visto chissà che profondità in questa mezza stronzata di film, compiendo addirittura paragoni arditi con opere letterarie tipo il Deserto del Tartari di Buzzati, ma nella realtà dei fatti abbiamo un prodotto poco più che mediocre, il quale sicuramente vola molto più basso rispetto all'ego ipetrofico del suo regista.
Mendes confeziona una pellicola stra colma di citazioni ai classici del cinema, oltre a scomodare Kubrick e Coppola, tira in ballo una certa goliardia negli scherzi e nel cazzeggio, pescandola da M.A.S.H. di Altman (1970) ma senza afferrare la dissacrazione del maestro sulla guerra, nonché svariati omaggi buttati qui e lì ad opere miliari come Il Cacciatore di Michael Cimino (1977) e Lawrence d'Arabia di David Lean (1963), giusto per soddisfare al meglio la megalomania del suo presunto autore. Incerto nel tono da adottare, tra goliardie degne di una classe di liceali capitanate dall'irritante soldato di prima classe Dave Fowler (Evan Jones) e tentativi di dissertazioni filosofiche sulla guerra e l'attesa di uno scontro che sembra non arrivare mai, Jarhead mostra molti deja-vu finendo con il tradire le sue enormi ambizioni, poggianti su dialoghi imbarazzanti, pensieri da far cascare le braccia e dei marines confezionati con il perfetto manuale del soldato cinematografico, dove hanno ben poco da offrire a livello umano, perché in fondo sono tutti una massa di bamboccioni senza cervello, capitanati da un Jamie Foxx iper-squadrato nella caratterizzazione e da un Jake Gyllenhaal bravo, ma penalizzato da un personaggio che dispensa considerazioni banalotte, dove in fondo si comprende come la guerra sia inutile, deformante e irreale, ma per la patria questo ed altro.
La prima guerra del golfo d'altronde chi l'ha vista? In TV tante esplosioni e botti, ma poca sostanza, perché gli antefatti sono durati molto di più dello scontro in sé conclusasi in appena pochi giorni. Più che sulla guerra in sé di cui vediamo poco e nulla, Jarhead dovrebbe essere una pellicola sull'inazione e la frustrazione per un dunque che non sembra arrivare mai, questo approccio avrebbe richiesto maggior "noia" e una regia più posata, con virtuosismi contenuti per esaltare una routine infinita, spazzata via nel film dal fatto del far accadere nel nulla tante cose, tra addestramenti per ambientarsi nel deserto (che vediamo giusto 3 minuti, poi non sembrano più fare un cazzo), partite a rugby sotto il sole cocente, scontri tra scorpioni su cui scommettere, film visionati nelle retrovie e feste di Natale allegre a suon di sbevazzate, Mendes elimina la la stasi per il dinamismo, eppure quei campi lunghi a perdita d'occhio resi evanescenti dalla calura insopportabile, avrebbero meritato maggior rispetto sia nella totalità della messa in scena che in una sceneggiatura molto superficiale, banalotta e stiracchiata nella durata, in cui il nulla percepito dallo spettatore, riguarda quello dei contenuti di un banale anti-militarismo d'accatto, piuttosto che nello straniamento dovuto all'attesa. Colpi notevoli d'occhio in specifiche sscene non mancano, come quella dei pozzi di petrolio in fiamme e del cavallo ricoperto dal greggio, ma il merito è da ascriversi alle doti visive di Roger Deakins e comunque restano sprazzi qua e là, nel mare del pressappochismo dove l'aspetto filosofico è da maestro dei poveri, risultando anche falso ed insincero, mentre la componente ironica viene declinata in un'ottica caciarona e tamarra sopra le righe, cominciando dal finale nel deserto iper-cafone con un Jamie Foxx truzzo come non mai con quel sigaro in bocca e super-mitra nell'altra mano. Il colpo perfetto non si vede non perché mai sparato, ma per il fatto che manca del tutto, a causa di un'incertezza di tono ed idee alla base della pellicola, che si rifugia in personaggi dozzinali, situazioni rivista ed il vuoto contenutistico, che si tenta di mascherare con la forma qua e là, anch' essa nulla di che e troppo dipendente dagli estri visivi del direttore della fotografia. Questa volta accoglienza più tiepida da parte della critica, nonostante certi elogi da parte di gente come Ebert ed incassi deludenti di 90 milioni a fronte di un budget di ben 70 milioni.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta