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Il mistero di Lovecraft - Road to L.

Regia di Federico Greco, Roberto Leggio vedi scheda film

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La recensione su Il mistero di Lovecraft - Road to L.

di EightAndHalf
4 stelle

 Il vero problema del mockumentary in sostanza è anche ciò che lo differenzia dal vero e proprio found footage, e che è in qualche modo un ostacolo paradossale. Nel secondo sottogenere, anche detto POV, si ritrova un nastro registrato da persone non esperte di cineprese e testimoni di fattacci in cui magari ci hanno pure rimesso la pelle, con il miracolo però di aver salvato una pellicola, un po’ rovinata ma comunque sufficientemente macabra. Il mockumentary vero e proprio invece persegue le dinamiche del documentario normale, quindi inserisce interviste, voci fuori campo, immagini di repertorio, e non riesce quasi mai a creare quel contatto fenomenale fra realtà e finzione che pure rende certi found footage abbastanza inquietanti. Non che il POV sia davvero superiore, qualitativamente, al mockumentary, anzi, possibilmente il secondo è molto più tradizionale del primo e presuppone anche più contenuti. Oltre al fatto che è possibile sia anche più interessante, e non un puro divertissement. Però è davvero difficile che riesca a insinuare il dubbio nello spettatore, perché già di loro i documentari normali filtrano e filtrano il materiale di repertorio con musiche e commenti sovente superflui, non necessari ad arricchire un’immagine che, si suppone, dovrebbe parlare da sola (basta guardare ai documentari di Herzog o di Wang Bing). Lo stesso vale per Road to L., un’operazioncina abbastanza originale per non far urlare alla boiata ma sufficientemente monocorde per dire che sfrutta molto male le campagne veneziane che pure hanno fatto urlare molti alla citazione di Pupi Avati. E in effetti siamo da quelle parti, anche qui le finestre ridacchiano di nascosto nei confronti dei poveri indagatori dell’incubo di circostanza che cercano informazioni riguardo il supposto viaggio di H.P. Lovecraft in Italia. Ma il connubio fra moderno horror style e classicismo avatiano non funziona, scricchiola più volte nei commenti e nei tentativi vani di rendere i personaggi interessanti raccontandone le dinamiche e le emozioni. Tra paure risapute, rancori prevedibili ed esiti poco interessanti, il film si rende originale perché, essenzialmente, racconta e non mostra mai, si carica di attese ma le disillude tutte mantenendo, in poche parole (e permettendoci un piccolo spoiler), tutti i personaggi vivi. Niente macellerie, niente morti, niente degenerazioni: il terrore vuole essere psicologico più che fisico e visuale. Ma la conseguenza diretta è una: perché scegliere proprio la tecnica cinematografica, per di più del mockumentary? Quello che poteva essere un gioco letterario-cinematografico denso di spunti si rivela un nervoso giochetto privo di tensione che “traballa” fin troppo per emozionare. Solo il finale si salva, anche se sembra inserire la cassetta dello studente scomparso come deus ex machina per smuovere un po’ le cose: per il resto personaggi, trama, paesaggi e atmosfere sono tutti fattori assolutamente rimovibili, stancanti e privi di interesse. D’altronde se in un horror manca l’interesse o quantomeno il disturbo, cosa rimane? Forse oggi siamo troppo abituati al genere, forse nel 2005 la ventata di novità era maggiore (e non è neanche vero, che Blair Witch Project era già impazzato di qua e di là), ma basta guardare il mockumentary vero e proprio The Bay di Barry Levinson, come anche film più sconosciuti come Lake Mungo, per capire che il genere qualche cosa da dire ce l’ha (addirittura oggi) e che certo tal cosa non la dice con questo filmetto dalle buone premesse ma dagli esiti scarsetti. Francamente evitabile. 

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