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Tutte le mattine del mondo

Regia di Alain Corneau vedi scheda film

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La recensione su Tutte le mattine del mondo

di LorCio
8 stelle

Tutte le mattine del mondo, per parlare di tutti i giorni (di cui le mattine sono il principio, e ogni storia ha un inizio, un centro e una fine), della quotidianità della dedizione, della rinuncia, delle passioni. Si parte con un primo piano di Gérard Depardieu in fin di vita, vissuto con sfacciata discrezione, abitato dal fantasma della musica. E la musica, per il moribondo, la incarna il suo maestro, scomparso da tempo ma sempre presente.

 

Il film di Alain Corneau, tra le tante cose, è innanzitutto un film di presenze, sin dall’incipit con l’invadente stazza e il parruccone di Depardieu: la viola, lo strumento per cui si erano incapricciati all’epoca i francesi (siamo sotto Luigi XIV), e quindi la musica, e il mentore artistico. Un lungo flashback ci racconta la turbolenta relazione fra i due, maestro ed allievo, vittima e carnefice, che si cercano, si respingono, si trovano, si odiano, si amano, si negano.

 

È la storia di una travagliata educazione (sentimentale), che è anche una specie di apologo sull’istruzione (con tanto bastone e poca carota), con al centro un devoto allievo forse fin troppo ambizioso quanto appassionato (dapprima interpretato dal figlio di Gérard, Guillaume) e da un celebrato maestro forse fin troppo severo quanto represso (“Padre voi conoscete le passioni?” gli chiede stupefatta la figlia). E non soltanto: è anche il romanzo di un amore disperato e senza via d’uscita tra una figlia di un padre ingombrante molto amato e un figlio putativo che forse aveva solo un disgraziato bisogno di una figura paterna.

 

Legittimo versare qualche lacrima di fronte alla straziante ultima parte, dall’atto estremo di Anne Brochet fino al crepuscolare tramonto (le mattine prima o poi finiscono, e arrivano le sere, le notti) di Jean-Pierre Marielle (“tacque per sei mesi”). Il film appartiene molto anche a lui, con la sua interpretazione magistralmente sotto le righe di un personaggio immenso, capace di limitare se stesso al punto di annullarsi, salvo poi salvarsi componendo, creando, non facendo musica ma essendo musica.

 

Attraversato da una musica eterea che proviene da un altro mondo, Corneau concepisce una partitura per viola, una sinfonia pura e limpida, calibrandosi perfettamente tra la necessaria e letteraria voce off del narratore e l’azione (poca ma buona), mettendo in scena immagini splendide che sembrano acquarelli d’altri tempi o nature morte inaspettatamente brillanti nei loro colori freddi e mattutini. Corneau riesce a far parlare qualcosa che non può parlare ma che si libbra nell’aria da sé: e alla fine, di questo film magnifico, restano soprattutto La tomba dei rimpianti, Gli inferi, Le lacrime, La barca di Caronte, quelle arie capaci di far risvegliare i morti.

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