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Colui che deve morire

Regia di Jules Dassin vedi scheda film

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La recensione su Colui che deve morire

di spopola
6 stelle

Questa è sicuramente la più ambiziosa opera di Dassin fra quelle realizzate nella prolungata transizione europea della sua discontinua carriera. Ampolloso e prolisso, ha la supponenza metaforica del pamphlet predicatorio. Le intenzioni sembrerebbero essere quelle dell’affresco sociale di grande respiro epico (lo spunto di partenza è ricavato dall’intenso romanzo di Nikolas Kazantzakis) ma l’obiettivo risulta solo in parte centrato. Il film alterna infatti momenti di alta suggestione anche emotiva, con pesanti cadute nella artificiosità allegorica della parabola religiosa, diluendo così l’importanza anche simbologica dell’assunto con una “semplificazione” eccessiva che rasenta la presunzione (forse ci voleva maggiore umiltà, e più spiccato talento per gestire la complessa materia e fondere al meglio i differenti “piani” del racconto). Sembra infatti che il regista non abbia avuto il coraggio (o la capacità) - dando forse troppo per scontato che potesse essere sufficiente per rendere esaustivo il concetto, il “parallelo”, evidentissimo fino dal titolo, con la rappresentazione della passione di Cristo, che gli abitanti sono chiamati a interpretare e che finirà anche nella realtà per travolgerli e unificarli nella “sorte” e la predestinazione - di scavare fino in fondo con il dovuto vigore per estrarre i succhi più nascosti, stimolanti e sottintesi da una storia che vuole essere innanzi tutto l’esaltazione esasperata del conflitto esistente fra carità e violenza. L’ambientazione è quella dell’oppressione turca in Asia Minore intorno agli anni ’20 del secolo scorso. E’ in uno dei villaggi di questo martoriato lembo di terra, che il pope Grigoris sta organizzando la rievocazione “scenica” del Calvario, come al solito cercando di gestire al meglio, fra compromessi e collaborazionismo, i rapporti e gli equilibri con il dominatore, e di mantenere inalterati i privilegi della comunità locale asservita al potere. L’arrivo di un più consapevole drappello di profughi greci, sbilancerà le simmetrie di questa “forzata” convivenza, e proprio la rappresentazione “celebrativa” della Passione di Gesù, diventerà l’ago catalizzatore che, mischiando realtà e finzione, sarà capace di risvegliare le coscienze e la ribellione contro l’oppressore. Riuscito dunque solo a metà, il risultato complessivo presenta indubbiamente molti passaggi di alta e intensa commozione, anche se la sua innegabile “artificiosità” non sempre adeguatamente risolta, costituisce il vincolo per rendere il tutto poco credibilmente “veritiero”. Sulla carta, di assoluto rilievo l’intero cast: Melina Mercuri, compagna del regista, Pierre Vaneck, Maurice Ronet, Roger Hanin, Fernand Ledoux, Carl Möhner, Gert Fröebe, Gregoire Aslan, e soprattutto Jean Servais, “cristologico” protagnosta destinato al martirio (ma le conclusioni valutative non sono all’atto pratico analogamente pregnanti, perché forse ci sarebbe stato bisogno più che di tante altisonanti celebrità, di una recitazione più spontanea e di “volti” meno usurati, magari più anonimi e impersonali, ma per questo più “spontaneamente” aderenti e conformi).

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