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Il gatto a nove code

Regia di Dario Argento vedi scheda film

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La recensione su Il gatto a nove code

di rickdeckard
6 stelle

Un prodotto assolutamente godibile e dignitoso, che reitera in maniera peculiare e interessante alcune ossessioni tipiche argentiane, depotenziato però da una trama piena di buchi logici e da un impianto narrativo piuttosto convenzionale.

Dopo lo stupefacente esordio avvenuto nel 1970 con L’uccello dalle piume di cristallo, Dario Argento, probabilmente spinto dal successo del suo film, ritenta il colpo e realizza immediatamente Il gatto a nove code, secondo capitolo della futura trilogia degli animali e, senza dubbio, il più debole del trittico. Partendo da uno spunto curioso e interessante (un’anomalia nella struttura cromosomica che predispone alla violenza e alla criminalità chi ne è affetto), Argento imbastisce un coinvolgente thriller dall’impianto narrativo classico, che evita in parte i deliri visivi presenti in altri film del regista. Nel tentativo di abbracciare una struttura da giallo che segua alcuni degli stilemi di Agatha Christie e che al contempo strizzi l’occhio al mercato internazionale, il regista romano sperimenta dei meccanismi della suspense ben lontani da quelli a lui congeniali e il suo talento visionario mal si adatta alla convenzionalità dello stile narrativo scelto (che riecheggia quello americano senza riuscirci pienamente, a causa dei numerosi buchi di sceneggiatura). Anche gli sporadici elementi tipici del giallo alla Agatha Christie risultano mal inseriti poiché i canoni espressivi della scrittrice britannica sono diametralmente opposti a quelli di Dario Argento: se la prima infatti costruisce delle storie minuziosamente calibrate al millimetro e narrativamente coerenti, il secondo subordina la logica narrativa a un’esposizione quasi ossessiva delle sue paure, sempre sotto il segno di soluzioni visive scioccanti e di un estro visionario costantemente vivace. E qui la soluzione chiarificatrice, che non è più affidata a un geniale espediente visivo ma a un didascalico “spiegone” finale, convince poco. Nonostante tali limiti, però, non si può certo negare che Il gatto a nove code abbia diverse frecce al suo arco, in primis la reiterazione del catalogo delle ossessioni tipiche argentiane, che qui si traducono nell’interessante contrapposizione tra la cecità del giornalista/investigatore e l’iride costantemente in primo piano dell’assassino: ancora una volta, nel cinema di Argento, vi è la sovrapposizione tra l’occhio che vede e quello che uccide, non a caso racchiusi nella stessa persona (l’assassino, appunto). Pur svolgendo l’atto della visione un ruolo fondamentale nel cinema del cineasta italiano, esso non è l’unica “arma” di cui dispongono i suoi personaggi, almeno in questo caso: un esempio lampante è quello del protagonista, non vedente che fa dell’udito la propria vista. Al di là delle intriganti riflessioni metacinematografiche, il film trova i propri punti di forza nell’azzeccata caratterizzazione dei personaggi principali, funzionalmente interpretati da tutti gli attori (fatta eccezione per l’inespressiva Catherine Spaak), e soprattutto nell’indiscutibile maestria tecnica di Dario Argento per quanto riguarda la costruzione della tensione, che raggiunge il culmine nella celeberrima sequenza al cimitero e in alcune scene d’omicidio (veramente notevoli). In definitiva, Il gatto a nove code rimane un prodotto godibile e assolutamente dignitoso, ma privo dell’estro visionario e della potenza espressiva che avevano fatto grande il suo predecessore. La trilogia si concluderà lo stesso anno con 4 mosche di velluto grigio. Voto: 6,5

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