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Regia di Bent Hamer vedi scheda film

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La recensione su Factotum

di ROTOTOM
8 stelle

Mozzicone di vita del loser per eccellenza della letteratura americana, Henry Chinaski, alter ego di Charles Bukowski nel quasi vero romanzo della propria vita fatta di grandi bevute, bar e donne da bar, corse di cavalli e passaggi allucinati da un lavoro ad un altro senza alcuna prospettiva se non quella di guadagnare il minimo possibile per la prossima sbronza. E’ nel sogno americano che si frantuma in decine di lavori senza senso se non quello di mandare avanti sempre più stancamente il sogno stesso, che sta il senso del titolo, il sogno americano che si specchia negli occhi opachi delle comparse che abitano le strade, i vicoli, che consumano le giornate aggrappate al bancone di un bar aspettando l’inesorabile domani. Delle loro vite immobili, quelle dei quasi homeless, incastonati come pietre fasulle in un fasullo quadro di urbana civiltà, rende molto bene il film in cui esplode tutta la poesia carica di passione, di carne, di amore per la vita di Bukowski, un sogno diverso da quello confezionato dalla società dei lavori a ore, degli affitti per luride stanzette e del vino da prezzo. Un piccolo film fatto di silenzi, delle poche parole indolenti di Chinaski/Matt Dillon straordinario interprete del protagonista che sottrae tutto il sottraibile dal suo personaggio presentandolo in tutta la sua dolorosa inadeguatezza di fronte ai fatti della vita, pesante e bolso, insofferente e a suo modo ribelle alle regole imposte da una società che non comprende e che non lo comprende. Vicina a Dillon si muove sgraziata e dolce al tempo stesso Mimi Taylor, minuta e dolente come una scheggia nella carne e fatta di quella carne che brama vita, alcool, amore e che rifiuta a priori il borghese arrendersi ad un’esistenza di comodo benessere. Le scene si succedono una dopo l’altra come piccoli spot, piccole sezioni di tempo immobile dotate di un proprio senso intrinseco, slegato al successivo. Non c’è la percezione del tempo in movimento come qualcosa che si consuma, è presente piuttosto lo sfruttare quel singolo pezzo di tempo- luogo -spazio come se fosse l’ultimo. Come quasi sempre è immobile la macchina da presa, il regista Bent Hamer più che filmare la vita di Chinaski ne descrive la filosofia di vita, lo riprende quasi di nascosto, sta a vedere cosa succede con distacco, lascia che i suoi attori vivano il tempo a disposizione della scena a loro piacimento, senza tagli o stacchi o virtuosismi inutili. Così com’è, annota la loro vita finta esattamente come la società che deve produrre guarda i perdenti col distacco di chi vede in loro la possibilità sempre più concreta, del proprio decadente fallimento.
Nell’immobilità del tempo delle lunghe scene silenziose, nell’immobilità degli altri personaggi che compaiono in scena sono ritratti gli scarti dell’America vincente, scorie di produzione che hanno rinunciato a lottare e aspettano solo che qualcosa cambi ma senza crederci troppo, in questa scarna atemporalità scevra di parole solo Chinaski/Bukowski/Dillon è in movimento, solo lui reagisce a suo modo a questa condizione di immobilismo e il movimento fisico sulla scena non è altro che il concreto manifestarsi dell’unica forma di ribellione che egli conosce: la scrittura. Bukowski vive perché scrive, tutto il resto è accidentale, il lavoro, la società, mangiare, bere, il sesso è tutto in funzione della priorità dello scrivere.”Consumiamo la nostra vita in rancori sempre più grandi e alla fine alla morte non rimane più nulla da portare via” questi versi tracimano come lava dagli occhi disillusi e pacati di Chinaski rivelandone il magma interno, nella spietata capacità di vedere le cose semplicemente per quello che sono, senza condizionamenti, così come senza condizionamenti egli vive la propria esistenza di scrittore in maniera totale fino all’ultima speranza utile. “Se lo devi fare, vai fino in fondo” dice fuori campo la voce off che declama alcuni stralci delle sue poesie, i suoi pensieri, le considerazioni di un uomo che a dispetto dell’alcool e di una vita a margine aveva la lucidità e l’intelligenza di non considerarsi battuto in partenza visto la scelta di non cominciare neppure a combattere.

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