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Un uomo dalla pelle dura

Regia di Franco Prosperi vedi scheda film

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La recensione su Un uomo dalla pelle dura

di moonlightrosso
7 stelle

Un film figlio di un cinema che non esiste più.

Verso la fine degli anni sessanta la "Cinegay S.p.A." dell'italo-francese Felice Testa Gay ideò una serie di noir a basso costo da ambientare nella provincia americana e ispirati a certa letteratura "hard boiled" minore del dopoguerra, serie della quale questo film costituisce il prodotto senz'altro più interessante, oltre che l'ultimo in ordine di tempo.

I copioni venivano revisionati da mani esperte come quelle, fra gli altri, di Adriano Bolzoni per poi essere affidati a registi di consolidato mestiere (magari provenienti dalla gavetta) e che non avessero pretese economiche eccessivamente esose.

Maestranze italiane lavoravano a fianco di caratteristi più o meno noti di casa nostra; gli attori principali venivano invece reclutati tra le seconde schiere di Hollywood, rinvigoriti da qualche vecchia gloria che desse vendibilità al prodotto.

Un solido plot del mai abbastanza apprezzato Armando Crispino e del suo storico collaboratore Lucio Battistrada ci immerge nel sottoclou pugilistico che fa da cornice ideale per la storia di un boxeur mezzo-sangue, Teddy "Cherokee" Wilkox che si trova invischiato nell'omicidio del suo manager Tony La Monaca, colpevole di aver tentato di truccargli un incontro, a seguito delle pressioni dei bookmakers clandestini.

L'onesto mestierante Franco Prosperi (1926-2004), ex aiuto di Mario Bava, da non confondersi con l'omonimo documentarista collega di Jacopetti e Cavara, subentrò all'ultimo ad Alberto De Martino, che aveva dato buona prova di sè come regista del coevo "L'uomo dagli occhi di ghiaccio", sempre di marca "Cinegay" e che avrebbe dovuto dirigere anche questo lavoro. Già al soldo di Testa Gay per "Tecnica di un omicidio" (1966), Prosperi difetta, a onor del vero, di quella personalità necessaria a far decollare una vicenda che si muove con incertezza tra i vari registri delineati da una pur efficace sceneggiatura.

Se il mondo pugilistico rimane ingabbiato nei soliti stereotipi derivativi e se ben altra mano sarebbe servita a tratteggiare tutta quella fauna di sbandati e criminali di piccolo cabotaggio che lo circonda, è piuttosto la parte giallo-poliziesca a essere maggiormente nelle corde del regista romano. Pur rimanendo sotto l'egida del "whodunit" del giallo classico, la pellicola ci presenta quei delitti graficamente crudeli compiuti da un assassino neroguantato e quelle esplosioni di violenza care al thrilling nostrano che in quegli anni attraversava una vera e propria "golden age". Su quest'ultimo aspetto definirei senza mezzi termini memorabile l'agghiacciante scena finale in palestra con un Tomas Milian che, crivellato dai colpi dei poliziotti, spande e sparpaglia il proprio sangue sulle vetrate.

Spostando l'attenzione sul panorama attoriale, un Robert Blake fino a quel momento impiegato in prevalenza come caratterista e che raggiungerà la popolarità come il "Baretta" dell'omonima serie televisiva, pur muovendosi con disinvoltura nel personaggio di "Cherokee", non dispone né di quella grinta né di quel nerbo che gli consentano di "bucare" veramente lo schermo.

Professionali, ma nulla di più, i vari Gabriele Ferzetti, Orazio Orlando ed Ernest Borgnine, nei rispettivi ruoli del manager di "Cherokee" Tony La Monaca, del giornalista Mike Durrell, falso amico di "Cherokee" e del capitano Perkins.

Occasione sprecata per la splendida Catherine Spaak, nella parte della figlia di La Monaca, che aiuta "Cherokee" a scoprire l'assassino o gli assassini del padre e che avrebbe meritato un ruolo di maggior spessore.

Ottima la prova di Tomas Milian, nella parte di un losco hippy colluso con la criminalità organizzata e che ci offre una rivisitazione in chiave "villain" di quel personaggio sciatto e cialtronesco dei coevi westerns rivoluzionari a firma corbucciana e sollimiana.

Colonna sonora "lounge" e di stampo americano firmata da quell'ottimo jazzista che è stato Carlo Pes.

In definitiva, pur rimanendo nell'alveo dei prodotti di imitazione, "Un uomo dalla pelle dura", in quanto commistionato con un modo di girare tipicamente italiano, riesce, nonostante tutto, a essere a suo modo originale e mai pedestre, figlio di un cinema che non esiste più, quello degli anni settanta.

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