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Barbarossa

Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Barbarossa

di omero sala
6 stelle

 

locandina

Barbarossa (1965): locandina

 

Il titolo del film è il nome con cui viene chiamato il medico che dirige un ospedale alla periferia di Tokio: una scalcinata clinica che sopravvive fra mille difficoltà per l’eccessivo numero di ricoverati e per la mancanza di finanziamenti. Il responsabile è interpretato dal leggendario Toshiro Mifune che con Kurosawa interpreterà altri 15 film, fra i quali i famosissimi Rashomon (1950), L'idiota (film 1951), I sette samurai (1954). 

Il vero protagonista però è un giovane medico, Noboru Yasumoto (interpretato da Yuzo Kamaia), un ragazzo di buona famiglia che ha studiato presso la prestigiosa scuola olandese di medicina a Nagasaki e aspira, grazie ai suoi studi e all’influenza della sua famiglia,  a diventare medico di corte. Arriva invece nella clinica del quartiere degradato senza capire le ragioni o sapere che ce l’ha mandato (e qui viene in mente Kafka). Per questo è deluso, indispettito, irritato e non si rassegna ad assumere l’incarico: rifiuta di lavorare, non accetta di indossare il kimono d’ordinanza dei medici, non lega coi colleghi, diffida del capo, non si vuole occupare dei pezzenti ammucchiati negli stanzoni maleodoranti.

Ma accade che, giorno dopo giorno, comincia a vedere con rispetto l’abnegazione dei colleghi e la bontà d’animo - accompagnata da una notevole e non convenzionale professionalità - del direttore della clinica e a guardare con occhi diversi i ricoverati, la maggior parte dei quali soffre di mali che derivano da infelici esperienze di vita: la donna mantide ninfomane pluriomicida che ha subito violenze nella sua infanzia, l’uomo che ha assistito al suicidio della moglie che si è tolta la vita dopo averlo tradito, la ragazzina salvata da un bordello e portata in clinica dallo stesso Barbarossa, che per sottrarla alla tenutaria del bordello affronta da solo una decina di mascalzoni, li atterra rompendo loro le ossa in un combattimento che ricorda altri film chambara (i Samurai movies, mitici in Giappone quanto i western in America) dello stesso Kurosawa e con lo stesso Mifune che qui, diversamente che in altri film, alla fine dello scontro si preoccupa di riaggiustarli.

L’arroganza del giovane Noboru comincia a vacillare. Crolla poi. definitivamente quando avrà a che fare con la ostinata infelicità di Otoyo, la piccola prostituta che rifiuta cure, cibo e contatti, perché rifiuta disperatamente la vita.

 

Il film dura più di tre ore e contiene mille tracce di storie accennate, abbandonate, riprese, intrecciate fra loro. Tutte, forse con qualche eccesso di retorica, ma ben cariche di pietas e di emozioni trattenute (e perciò maggiormente dense), piene di tenerezza e di compassione empatica, colme di straziante dolcezza e di umanità.

Lo sguardo sulla sofferenza è insolito, non solo per il Giappone del XIX secolo (nel quale è ambientata la storia) o per il XX secolo, nel quale la storia è raccontata.

La concezione della malattia è rivoluzionaria (sistemica, direbbe lo psichiatra Luigi Cancrini) nella sua intelligenza di non scindere le sofferenze esistenziali da quelle organiche. 

 

Si parla di sofferenze e di morte, di amori negati e di tradimenti, di gelosie, pentimenti, degenerazioni, incomprensioni, rassegnazione, disperazione (Chobo il topo, un ladruncolo che vive di stenti e sostiene la famiglia con quel poco che riesce ad arraffare dalle cucine dell’ospedale, quando i suoi decidono il. suicidio collettivo della famiglia, dice mentre sta per morire: “La mia vera vita si chiude qui, come se avessi avuto la felicità che mi spettava”).

Ma si parla anche di riscatto, di redenzione, di generosità, di empatia, di abnegazione, di compassione. La solidarietà che si respira nella clinica dei poveri pervade tutti e tutto: struggente è la scena in cui, mentre Chobo il ladruncolo sta morendo, le lavandaie si affacciano ai bordi del pozzo urlando il suo nome, perché una antica leggenda dice che questo trattiene gli agonizzanti in vita; e il malato è salvo se riesce a sopravvivere alle prime luci dell’alba.

Con le lavandaie, a gridare nel pozzo, c’è anche Okono, la piccola infelice prostituta, che è uscita dalla sua prigione di rancore e dal rabbioso rifiuto della vita assistendo il piccolo Chobo.

 

scena

Barbarossa (1965): scena

 

 

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