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I Re e la Regina

Regia di Arnaud Desplechin vedi scheda film

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La recensione su I Re e la Regina

di degoffro
4 stelle

Due vicende. Nora dirige una galleria d'arte. Ha un figlio, Elias, di 10 anni, avuto dal primo marito, deceduto prima che il bimbo nascesse. Ha avuto una lunga storia con Ismael, da cui si è separata, perché "la nostra relazione sembrava più una tresca che una relazione stabile. Ho sempre pensato che amare significasse non dover chiedere. Il mio secondo marito sosteneva il contrario. Non era molto premuroso." Ora è prossima alle nozze con Jean Jacques, uomo ricco e, al contrario di Ismael, assai premuroso, del quale però non è veramente innamorata e con cui Elias non riesce proprio a legare. La seconda storia ha al centro proprio Ismael, finto pazzo ed assai esuberante, oberato dai debiti, con una sorella che non lo può vedere, ricoverato con la forza in una clinica psichiatrica per un periodo di degenza. Nora e Ismael si ritrovano quando la donna, dopo avere saputo che il padre molto amato è malato terminale di cancro e ha pochi giorni di vita, chiede all'ex compagno di adottare il figlio che con lui ha sempre avuto un rapporto privilegiato. Ecco il film che ha fatto impazzire i francesi (pubblico e critica, con ben 7 nomination ai Cesar, tra cui attore e attrice protagonista, regia, film e sceneggiatura, oltre al premio Louis Delluc) e anche gran parte della critica italiana. Non invece la giuria presieduta da John Boorman al Festival di Venezia del 2004 dove il film è, giustamente, uscito a mani vuote. Di fronte a titoli come "Vera Drake", "Mare dentro" e "Le chiavi di casa", il film di Arnaud Desplechin rivela tutta la sua fiacchezza ed evanescenza. Forse poteva anche rimanere inedito senza che la Fandango si affannasse a distribuirlo due anni dopo la sua presentazione veneziana. Tipico ed esasperante esempio di cinema francese, intellettuale e supponente, che si credeva ormai superato e dimenticato. Il comico e il tragico mal si amalgano nell'opera di Desplechin, scritta con Roger Bohbot che aveva esordito firmando lo script dello splendido e ben più coinvolgente "La vita sognata degli angeli". Enfatico, gridato, irritante, improbabile, prolisso, verboso, con una quantità di scene madri da fare paura e una durata insostenibile (davvero dura sopportare 150 minuti di vane chiacchiere). L'impressione è che il regista abbia voluto infilarci di tutto (accenni anche ad adozioni, riconoscimento dei figli ed eutanasia), ma in modo superficiale, confuso, mai veramente incisivo, né tanto meno appassionante. L'elemento infatti che più disturba e sorprende in negativo è l'incapacità per lo spettatore di entrare in sintonia con i personaggi (soprattutto Nora) che rimangono distanti, freddi, anche patetici nella loro mediocrità. Ci sono alcuni episodi superflui (il sogno di Ismael con la regina di Inghilterra o il tentativo di rapina al negozio dei genitori di Ismael, per esempio). Altri incredibilmente forzati, come il suicidio di Pierre, il primo marito di Nora (peraltro è ridicolo che i vicini di casa sentano la coppia litigare furiosamente e poi persino uno sparo ma non si preoccupino minimamente di chiamare la polizia o l'ambulanza così che il padre di Nora possa tranquillamente togliere dalla pistola qualsiasi impronta della figlia, evitandole possibili ripercussioni legali). Altri episodi invece paiono piazzati lì per caso (l'adozione del cugino di Ismael sul finale, la break dance di Ismael all'ospedale). Alcuni personaggi sfiorano la macchietta: su tutti l'avvocato drogato di Ismael. Altri sono mal sviluppati (la sorella di Ismael e la sorella di Nora, il compagno di viola Cristiano, ma anche Arielle "la cinese", a conti fatti, ha poco peso). Le situazioni che potrebbero essere più forti e commoventi suonano false, eccessive ed accademiche come la brutale lettera di odio che il padre di Nora lascia alla figlia. Il carattere surreale di alcune situazioni è stonato ed incomprensibile. I continui rimandi tra passato e presente rendono ancora più faticosa ed indigesta la narrazione. Ci sono solo due momenti davvero riusciti e belli. La curiosa e divertente discussione di Ismael con la psichiatra interpretata da Catherine Deneuve (bella la sua partecipazione) sull'anima: Ismael sentenzia convinto che "le donne non sono uguali agli uomini perché non hanno un'anima: ci sono donne prete o rabbino?" domanda alla sua perplessa interlocutrice, rincarando poi la dose sul fatto che "gli uomini vivono su una retta, le donne in bolle, piccole bolle e passano dall'una all'altra". Alla domanda della psichiatra: "Per cosa vivono le donne?" Ismael replica serafico: "Per nulla. Vivete e basta. Noi viviamo per morire!". Ed il finale con la visita al museo di Ismael ed Elias in cui l'uomo dà al ragazzo la sua personale ed intensa lezione di vita, gli spiega con misura ed intelligenza perché ha deciso di non adottarlo, evitando di fargli da finto padre, chiarendogli perché è importante che un adulto e un bambino non siano amici o complici e ricordandogli che "il passato non è ciò che è scomparso ma ciò che ci appartiene". Il tutto senza pedanteria, moralismi o presunzioni. Questo avrebbe dovuto essere il tono, leggero ed ironico, malinconico e brillante, dell'intero film ma Desplechin calca inutilmente e pesantemente la mano realizzando un'opera pretestuosa e sterile, azzoppata di frequente da dialoghi artefatti e pomposi. Tra gli attori poi Emmanuelle Devos (prima di lei il regista aveva pensato a Valeria Bruni Tedeschi) era straordinaria in "Sulle mie labbra": qui, purtroppo alle prese con un ruolo anche antipatico (i modelli del regista erano la frigida Marnie di hitchockiana memoria, la Sharon Stone di "Casinò" e la Gena Rowlands di "Un'altra donna", vale a dire, per usare le parole del regista "tre donne terrorizzate dallo scoprire la loro vera personalità") si lascia andare ad una recitazione sopra le righe e non sempre convincente. Molto bravo invece il suo partner maschile Mathieu Almaric (premiato non a caso con il César). Il ruolo dell'esagitato, incasinato ma in fondo saggio Isamel sulla carta è più facile, ma Almaric è notevole nel dargli una carica e una vivacità esemplari, rendendo più sopportabile la delirante lagna di Desplechin. Un film soffocato inesorabilmente dalle sue stesse ambizioni: vorrebbe dire tutto, finisce per non dire nulla, risultando fumoso, ridondante e spesso fastidiosamente compiaciuto. Il fatto poi che il regista si sia ispirato ad episodi particolarmente dolorosi della vita della sua ex compagna, l'attrice Marianne Denicourt (il suicidio del padre di suo figlio e la morte del padre), per di più a insaputa della donna, che per questo lo ha portato davanti al Tribunale chiedendogli 200.000 Euro (per la cronaca poi il giudice ha dato ragione al regista sulla base del fatto che l'arte non è la vita) rende il film ancora più irritante ed indisponente. Se poi i riferimenti di Desplechin, come lui stesso ha dichiarato, sono Truffaut e Rohmer è opportuno consigliargli un doveroso e più approfondito ripasso.
Voto: 5

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