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Picnic alla francese

Regia di Jean Renoir vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Picnic alla francese

di spopola
7 stelle

Le déjeuner sur l’herbetitolo preso in prestito dal celebre quadro di Manet dipinto nel 1863 (ma distribuito in Italia con l’imbarazzante titolo Picnic alla francese) è una pellicola in genere considerata secondaria nella filmografia di Renoir così zeppa di capolavori, e certamente non è un’opera che si può definire “eccezionale”, come in altri casi si è scritto e con ragione a proposito dei risultati raggiunti dal regista, ma è in ogni caso un film che assomma magistralmente (e in qualche modo li condensa) gli insegnamenti (e le modalità di rappresentazione) da lui acquisiti in quasi trent’anni di carriera (il film è del 1959). Il tutto, vivificato da una particolare freschezza di visione al tempo stesso poetica e finemente “realistica” (come la definì Lorenzo Pellizzari), mantenuta in perfetto e stabile equilibrio per l’intero arco narrativo della pellicola.

Il regista, con una levità quasi farsesca, è qui riuscito infatti a confrontarsi con tematiche importanti e profondamente seriose (come il super potere degli scienziati e la loro pretesa pianificazione dell’esistenza umana nel voler imporre sul nomale fluire della vita la dittatura della scienza anche negli atti quotidiani dell’amore), il che rende il discorso particolarmente “spumeggiante” a partire dal ritmo imposto al racconto. Le sue sono insomma riflessioni (fatte con garbo e una totale assenza di pedanteria, ma allo stesso tempo anche con altrettanta lucida saggezza) su alcuni dei più dibattuti conflitti fra “scienza e natura” di quegli anni (qualcuno lo considera addirittura un lavoro che parla indirettamente di ecologia in assoluto anticipo sui tempi), inseriti in un film che poi però alla fine è soprattutto un inno all’amore che sprizza gioia di vivere da tutti i pori.

 

Girato in soli ventiquattro giorni (ma dopo una meticolosa e abbastanza prolungata preparazione fatta insieme agli ottimi attori del cast che gli ha consentito di registrare l’opera in assoluta continuità cronologica di ripresa) e realizzato in gran parte nella tenuta di famiglia “Les Collettes” a Cagnes-sur-Mer (Provenza) dove suo padre (il grande pittore Auguste Renoir) trascorse gli ultimi anni e morì, è il film che viene immediatamente dopo l’esperienza televisiva de Il testamento del mostro(anche se la distribuzione fu effettuata in senso inverso come tempistica di uscite sul grande schermo) e un’opera che - insieme a quel titolo - conferma quanto fosse ancora in lui costante e prioritario nonostante l’avanzare dell’età, il lavoro di “ricerca” e la conseguente necessità di individuare nuove formule e altrettanti corrispondenti moduli espressivi, inequivocabile testimonianza della vitale “giovinezza” (anche propositiva) di un genio creativo capace di riempire di interessanti contenuti “filosofici” un’opera girata in apparenza come un quadro impressionista in movimento e alla quale si potrebbe tranquillamente applicare alla lettera il giudizio che André Bazin aveva espresso nel 1936 riferendosi a Une partie de campagne (Jean Renoir fa il cinema ideale che avrebbe fatto suo padre) poiché anche qui – esattamente come in quell’incompiuto, insuperato capolavoro e come accade appunto nella pittura impressionista, conta più il “colore”, la “pennellata” che il “disegno”, anche se a me sembra invece molto più pertinente ciò che ha scritto il critico e filosofo francese Philippe Lacoue-Labarthe su questo “documentaire d’une fiction” poiché riguarda proprio quella che anche a mio avviso, è la principale innovazione apportata dal regista, che consiste appunto nella sua capacità di rivedere uno stile già consolidato e di rinnovarlo, il che lo porta appunto in questo caso a non utilizzare più le scene come fine, ma nell’assumerle invece come punto di partenza della sua regia e di trasformarle nella materia pulsante di un film dove più che quelle satiriche, sono soprattutto le corde liriche a vibrare e creare emozione.

 

 

Protagonista della storia, è il professor Alexis (uno straordinario Paul Meurisse) fautore-apostolo della fecondazione artificiale che sogna di poter arrivare a rendere lo spirito umano più atto a reggere il faticoso sforzo di stare al passo con i tempi che la “disumanizzazione” dell’inarrestabile progresso tecnico gli impone, sollevandolo – attraverso sperimentazioni progressive - dalle ansie e dalle fatiche dell’atto sessuale che troppo fiaccano le forze, e possa di conseguenza meglio affermare senza più la distraente “ossessione erotica” della prestazione, la sua “natura” più spirituale per contrastare e combattere la macchina tecnocratica che minaccia di annientarlo.

Candidato alla presidenza di un superstato europeo (godibile preveggenza valida anche per l’odierna situazione geopolitica del vecchio continente), egli trova i suoi più fervidi sostenitori al suo progetto nel bigottismo asessuato della fidanzata Marie-Charlotte (la giustamente tutta d’un pezzo, rigida e inteccherita Ingrid Nordine) dirigente di un movimento scouteristico femminile, oltre che nell’industria chimica franco-tedesca (come non percepire la sottile ironia, riferendosi al periodo in cui fu realizzato, di tale privilegiato “asse” commerciale!) e – inaspettatamente – in una fresca e prosperosa contadinella, Nénette (la deliziosa Catherine Rouvel) ansiosa di sperimentare il nuovo e asettico metodo procreativo promulgato dallo scienziato, dopo aver assistito impotente alle sciagure familiari derivanti dal matrimonio della sorella e del cognato con i quali convive.

I suoi tenaci oppositori sono invece impersonati da un gruppo di operai-campeggiatori che evidentemente non intendono essere privati dell’atto fisico della congiunzione carnale che la natura ha reso disponibile come efficace stimolo per la continuazione della specie.

Ma sarà proprio l’incontro del professore con la bella Nénette, e la conseguente, tardiva scoperta delle “gioie” della copulazione, a fargli rivedere in toto la sua tesi….

 

Indubbiamente, come fu rilevato a suo tempo non senza un eccesso di polemiche (soprattutto riguardo alla la figura del curato di campagna ritenuta da alcuni troppo ambigua), la sostanziale natura dell’opera è quella del “divertissement” (tutt’altro che innocuo però e soprattutto di “classe” superiore) che secondo una parte della critica era la causa principale della sostanziale genericità di una troppo frettolosa ricomposizione del dissidio nell’ottimistica e abbastanza prevedibile conclusione (alla quale comunque nemmeno Renoir sembra crederci più di tanto), senza considerare però che è invece nello sguardo arguto del regista, nella delicatezza del suo tocco, nel rigore assoluto della forma il vero valore aggiunto di un’opera che racconta una storia certamente un tantino “scollacciata” rispetto al pudore di facciata di quegli anni, ma sa essere poetica e intrigante pure nei momenti di “presunta” trasgressione e alla quale credo che possa essere “concesso” di diritto persino il vezzo del lieto fine. E’ infatti proprio grazie al suo positivismo di chiusura che questo apologo al tempo stesso scettico e appassionato, si trasforma in una parabola “etica” quasi esopiana nella sua sostanziale essenza che è certamente più esperienziale che didattica, e la cui morale divulgativa è semmai quella di ricordare a tutti (e Dio sa quanto bisogno ce ne sarebbe soprattutto oggi) che un qualunque dissidio fra tesi contrapposte, può essere placato proficuamente, e in direzione “costruttiva” anziché di battagliero scontro privo di ogni possibile apertura, solo se si sarà in grado di privilegiare quel tanto di positivo che esiste in oggi atto dell’uomo che dovrebbe essere per sua natura capace di ragionare e reggere il confronto dialettico utilizzando il buon senso, il che sarà pure un’utopia perdente (i tempi che stiamo vivendo ci indicano appunto e inesorabilmente che stiamo andando invece precipitosamente e a tutta velocità proprio nella direzione opposta), ma che vale la pena di considerare e di tener presente nel provare a sostituirla agli eccessi strafottenti del tutti contro tutti della contemporaneità.

Ed è proprio la rappresentazione “tipologica” delle due componenti del dissidio a risultare particolarmente stimolante in questa specie di grottesco tenzone.

I personaggi si ritrovano infatti riuniti a un condiviso picnic sull’erba, drasticamente divisi in due gruppi distinti e accuratamente caratterizzati (asettici i primi, particolarmente “virulenti” gli altri).

Ma dignità, riserbo e autocontrollo, sono destinati a infrangersi: complici lo stridulo canto sessuale delle cicale, l’umida calura che incolla gli abiti ai corpi e ne evidenzia l’opulenza delle forme, e un improvviso risvegliarsi del mistral (suscitato dal piffero di un moderno Pan qui nelle vesti di un pastore di capre).

Si scatena di conseguenza e all’improvviso una amorosa follia collettiva che tutto travolge, favorito anche da un paesaggio bucolicamente e rigogliosamente pastorale (meravigliosamente fotografato da Georges Leclerc) che indubbiamente incoraggia il sottile richiamo erotico dei sensi. Tutto questo trambusto, fa sì che anche le ferree convinzioni dello scienziato finiscano per naufragare davanti alla giunonica prestanza della ragazza che con estrema naturalezza (ma probabilmente pure con un pizzico di “malizia” provocatoria) si bagna nuda nel torrente.

Con uno straordinario senso del pudore che evita inutili e accentuati voyeurismi, e privilegiando sempre il suo sguardo rivolto alla natura che stimola quella irrefrenabile passione amorosa, sembra quasi che lo stesso Renoir partecipi altrettanto attivamente a quel risveglio dei sensi e che attraverso la mobilità della sua macchina da presa, inviti gli stessi spettatori a farne parte, e questo senza bisogno di soffermarsi troppo sui corpi, ma raccontando invece gli amplessi e sottolineandone acutamente le loro varie fasi in progressione, attraverso spericolate panoramiche sulle cupole frondose degli alberi contorte e accarezzate dal caldo, impetuoso vento del Sud, o soffermandosi a disvelare le suggestive visioni di acquatiche erbe fluttuanti, e dove proprio il fiume dal quale è scaturita la primaria tentazione, rimane l’elemento prioritario d’attenzione metaforica, con le sue limpide acque che scorrono sempre più tumultuose fino a diventare un gorgo frenetico (il diapason estremo della copulazione) per ritornare ad essere subito dopo uno specchio calmo dove le increspature vengono a rompersi a riva riconoscenti come carezze (ancora Pellizzari).

Con una rocambolesca cavalcata in motoscooter, inizia quindi la “fuga” dello scienziato in preda al risvegliato subbuglio dei sensi, che si rifugerà poi nel casolare di Nénette, teneramente e devotamente vezzeggiato – quasi adorato – dalla ragazza. Sarà durante questo breve soggiorno di “pacificazione di ogni eccesso” che l’uomo inizierà a chiedersi se felicità non sia proprio nel sottomettersi “arrendevolmente” all’ordine naturale delle cose, turbato nelle sue riflessioni post-coito, dall’arrivo del prete (e dall’ambiguità del conseguente discorso a cui accennavo prima) che sembra volere preludere all’”apparente rinuncia” di ogni successiva possibile tentazione, ma quando ormai “l’irreparabile” (come vedremo poi) è già accaduto. L’arrivo dei cugini industriali della ragazza prontamente accorsi, renderanno poi tutto più complesso e ingarbugliato fino a ripristinare tutte le preesistenti convinzioni (anche se con un po’ di rammarico).

Alexis ritorna così (non proprio di buon grado) ai sui studi e alla timorata fidanzata, senonchè nel finale, destino vuole che ritrovi Nénette diventata nel frattempo sguattera in un albergo per provvedere al futuro del bimbo che reca in grembo e, nella sorpresa generale, decide di sposarla. Ma la decisione la prende con assoluta convinzione non certo per riparare al danno, lasciando così intendere che la scienza dovrà sì progredire, ma rispettando la natura e i sui dettati (compresi i richiami sessuali, la cui piacevolissima forza – impulsi e valori – egli ha finalmente imparato a conoscere con piena soddisfazione).

 

Il regista ha colto benissimo (e altrettanto magistralmente l’ha messo a fuoco) l’aspetto assurdo della meccanizzazione disumanizzata di ogni atto e il positivo approccio sano, convincente ed appagante del compimento naturale del rapporto sessuale consumato in assoluta sintonia, e questa sua capacità di anali, la sua coerenza nel sottolinearne le sostanziali differenze, si ripercuote positivamente anche sul metodo di ripresa , sul linguaggio e lo stile: se del passato conserva la padronanza per quel che riguarda la tecnica, il tutto viene infatti poi giustamente adeguato alle nuove esigenze del racconto (consentendo così una proficua fusione e corrispondenza fra le postulazioni del contenuto e gli elementi della forma): come già ne Il testamento del mostro, anche qui ricorre infatti all’uso di più cineprese (anche 8 per alcune sequenze) per riprendere le scene da differenti angolazioni senza bisogno di utilizzare il consueto campo e controcampo, e questo allo scopo di ottenere dagli attori una maggiore naturalezza recitativa e la sorprendente fluidità senza interruzioni, della spontaneità. La resa dell’intero cast è infatti sorprendente, poiché tutto sono coinvolti in una full-immersion senza soluzione di continuità che già di per sé inibisce “metodologicamente” parlando, la meccanica ripetitività dei gesti e delle emozioni che qui sarebbe stata particolarmente dannosa.

Non sarà forse il miglior Renoir in assoluto dunque, ma è comunque un ottimo “grande” cinema tutto da gustare.

 

P.s. Il Morandini ci ricorda giustamente per meglio contestualizzare la pellicola rispetto al tempo in cui fu realizzata, che il film non fu assolutamente gradito dalla perniciosa censura democristiana dell’epoca, che infatti pretese per dare il nulla osta, che venisse distribuito con il divieto di visione ai minori di 16 anni.

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