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Mio zio

Regia di Jacques Tati vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Mio zio

di omero sala
7 stelle

locandina italiana 2016

Mio zio (1958): locandina italiana 2016

Monsieur Hulot, il personaggio, e Tati, il protagonista-regista, sono la stessa persona, la stessa cosa, inscindibili. Come Charlot da Chaplin.

Per cui non è possibile immaginare il geniale autore di questo film se non come uno spilungone imbranato, un curioso impiccione maldestro che guarda le persone e le cose come se le vedesse per la prima volta, stralunato come se fosse precipitato da Marte; anzi, lo immagino proprio come un marziano venuto male, un alieno difettoso di cui i Marziani si sono liberati perché si intrufola dappertutto col suo pastrano ingombrante, non sa far altro che toccacciare tutto come i bambini, combina inconsapevolmente guai, se ne sta fra i piedi col suo ombrello sotto il braccio, osserva tutto con stupita meraviglia e con una irritante aria svagata di silenziosa disapprovazione. Come se non lui ma tutti gli altri fossero fuori posto.

Hulot è sfasato, afasico, non si fa capire da nessuno quando bofonchia emettendo borborigmi incomprensibili con la pipa spenta sempre stretta fra i denti; ed è sempre fuori contesto, come un umarell che passa per caso e si capisce che avrebbe qualcosa da dire, che mette in imbarazzo con quell’aria distrattamente curiosa e con quello sguardo di dubbiosa disapprovazione, con quel corpo allampanato sempre un po’ proteso in avanti, con quei calzoni troppo corti, con quel cappelluccio stinto e la strana bicicletta che un po’ gli assomiglia. 

 

La trama di Mon oncle è semplicissima, come quella di tutti i classici della comicità dalle commedie greche fino a Keaton e Chaplin: si sa che le trame semplici sono più universali, più esemplari, più paradigmatiche, più adattabili alle diverse realtà.

Abbiamo uni zio strambo, un po’ bohémien che vive nella parte vecchia di una città. Sua sorella ha sposato il signor Arpel, un benestante ossessionato dalla modernità, e si è trasferita in una villa ipertecnologica nella parte nuova della stessa città, diventando una casalinga compulsiva ossessionata dalle pulizie: i due borghesi hanno un figlio, Gerard, di una decina di anni, un ometto perbenino, come si conviene ad un bambino educato al conservatorismo borghese; un piccolo conformista che però cova (e reprime) una sua effervescenza come si conviene ad ogni ragazzo della sua età.

Arriva Zio Hulot in visita.  

Il ragazzino rimane immediatamente affascinato da quello zio che si sente in ogni momento fuori posto e non riesce a nascondere il fastidio per un ambiente per lui così estraneo, artificioso, innaturale. Hulot infatti non solo non sa adattarsi al benessere e al conformismo dei parenti ricchi, ma se ne frega altamente dei loro comportamenti impeccabili e ipocriti, delle stupide regole incomprensibili e dei contegni artificiosi ed esibizionisti dettati dagli obblighi imposti dalla moda e dal consumismo. 

La casa dei signor Arpel è un manifesto di questa omologazione borghese: linee razionaliste essenziali, architetture funzionaliste fredde, automatismi (per definizione disumani), telecomandi, vetrate, scale a vista, giardini, siepi, fontane. E pare una casa finta, esibizionista come i suoi abitatori. Ed è circondata da muri e cancelli, ad escludere il mondo esterno dei comuni normali.

La parte vecchia della città in cui abita Hulot è quanto di più diverso si possa immaginare: movimentata, varia, giocosa; e la casa di Hulot è uno splendido esempio di superfetazioni irrazionali: il lungo piano sequenza del rientro di Hulot nel suo appartamentino attraverso scale e ballatoi è di per sé un capolavoro da vedere e rivedere.

Il piccolo Gerard, con disappunto di mamma e papà, adora lo zio bislacco, ama il suo ambiente, la sua bicicletta, la sua casa, la sua naturalezza. Certamente perché il tempo trascorso con lo zio e lontano dalla fredda villa è per lui come una fuga dalla artificiosità disumanizzante e dalle formalità omologanti, come un’immersione liberatoria nel mondo reale a lui sconosciuto. 

Dapprima il signor Gerard prova a “sistemare” il cognato strambo, anche perché intuisce la sua inconsapevole forza attrattiva nei confronti del piccolo Gerard: gli offre un lavoro e tenta di sedurlo con le sirene del benessere perfino presentandogli una signora del suo milieu durante una festa in giardino

Inutilmente. 

Hulot sa solo combinare guai: nella fabbrica di tubi di plastica le macchine prendono il sopravvento (ovviamente) e tutto va a catafascio (non si può non pensare a Chaplin in Tempi moderni); nella casa si muove impacciato come un corpo estraneo, dissonante come uno strumento sfiatato, boccheggiante come un pesce fuor d’acqua, ingombrante come un elefante.

Arpel alla fine decide di liberarsi di Hulot e lo invia all’estero. 

Hulot parte, non senza aver percepito che qualcosa a Villa Arpel si è incrinato, che il suo spirito rimane, che alcune sicurezze che parevano impermeabili hanno subìto una crisi. Il suo passaggio ha lasciato il segno: lo si capisce quando alla stazione vede il signor Arpel e il figlio ritrovare una imprevedibile complicità malandrina e un ghiribizzo di anarchia e forse cominciano a rendersi conto che la comicità delicata di Hulot è una forma divergente-divertente di smascheramento - il re è nudo! - della ritualità assurda e banale del loro costruito universo.

 

Ci sono cose nel film che sono assolutamente da vedere, da rivedere, da sottolineare: i titoli di testa curiosamente scritti sui muri o sui cartelli di un cantiere; la visita di un’amica alla signora Arpel, con l’attivazione della fontana-pesce per meravigliare l’ospite e il successivo percorso contorto, a serpente, delle due madame che chiacchierano e gesticolano nel vuoto lungo le passerelle a serpente nel giardino; la sequenza esilarante, già ricordata, del fantastico percorso che Hulot fa per rientrare nel suo appartamento all’ultimo piano di una casa dalle architetture caotiche, quasi surreali, quasi escheriane.

 

Ho ricordato due fra gli evidenti ispiratori di Hulot: Keaton e Chaplin, protagonisti della stagione del cinema muto e della slapstick comedy. I nessi più evidenti sono costituiti da connotazioni particolari quali i vestiti fuori taglia, i cappelli strani (bombetta per Chaplin, cilindro corto per Keaton, cappello floscio per Hulot), gli accessori fortemente connotanti (bastone per Charlot, ombrello e pipa per Hulot), le espressioni del viso (faccia statica da paresi per Keaton, sorriso eterno per Charlot, espressione ebete per Hulot). Ma il nesso più importante - non proclamato ma evidentissimo - è la comune comicità feroce contro una certa società, il sorriso amaro e graffiante, la bonomia radicalmente eversiva. 

Dopo gli ispiratori, non posso non ricordare gli epigoni, i molti allievi, fra i quali spicca Atkinson, regista e attore con l’ineffabile Mr Bean, che, in molte cose (movenze, borborigmi, impacci motori) può esser considerato debitore del film muto e uno dei più importanti eredi di Tati. E Blake Edwards, quello di Hollywood Party (1968).

A voler giocare con le citazioni, viene in mente anche la disumanità della villa dei Park in Parasite (2019) di Bong Joon-ho. E, se vogliamo, lo spirito iperbucolico di Celentano ne Il ragazzo della via Gluck contro ogni cementificazione, a contrappunto del Manifesto dei Futuristi di Filippo Tommaso Marinetti (1909) che viene argutamente ribaltato contrapponendo il vecchio al nuovo, la lentezza alla velocità, la tranquilla routine contro l’ossessione del progresso e dell’avvenirismo ipertecnologico. 

 

La quadrilogia dei film di Tati – composta da Jour de Fête (1949), Les Vacances de Monsieur Hulot (1953), Mon Oncle (1958) e Playtime (1967) è tutta da vedere.

 

 

 

 

 

 

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