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Il passaggio del Reno

Regia di André Cayatte vedi scheda film

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La recensione su Il passaggio del Reno

di spopola
6 stelle

Ha il gravissimo torto di aver scippato il Leone d’oro al Visconti di Rocco e i suoi fratelli in una programmazione che vedeva in competizione anche L’appartamento di Billy Wilder e che quindi poteva trovare un accomodamento meno scandaloso nel verdetto pur nella (comunque indecorosa) negazione di una consacrazione Viscontiana che era inevitabile

Cayatte è indubitabilmente un regista molto discusso (e anche “discutibile, direi”). I suoi film “a tesi” infatti sono stati spesso al centro di un’attenzione anche mediatica (e di dibattiti accesi e controversi) ben oltre il loro valore intrinseco, proprio per la rappresentazione di un problema specifico, di un “caso” esemplare di volta in volta posto all’attenzione generale che poteva mettere (o stava mettendo) in “crisi” e in contrapposizione molte coscienze, oltre che per “l’ottica” particolare (spesso anche contraddittoria) con la quale veniva evidenziato il quesito e per la veemenza declamatoria della messa in scena al servizio “dimostrativo” del teorema esposto (quasi sempre veri e propri “casi giudiziari” che “denunciavano” inesorabilmente la provenienza “forense” della preparazione formativa degli studi del regista), tutte caratteristiche che sono state in più di una circostanza il principale limite del risultato, al di là dei “successi” anche di critica, conseguiti all’epoca. Sovente “fuori sintonia” quando tentava di percorrere altre strade (“Gli amanti di Verona”, per esempio, realizzato utilizzando quella che è considerata in genere la più prevertiana delle sceneggiature di Prevert, per una volta ahimè lontano da Carné - di lui “orfano” si potrebbe dire – è una pellicola che mette inesorabilmente in evidenza proprio la difficoltà stilistica di Cayatte ad adeguarsi al cosiddetto filone del “realismo poetico” del quale lo scrittore è stato il massimo “cantore”) ha ottenuto i migliori risultati con i veri e propri “rompicapi” di “Giustizia è fatta” (omicidio o eutanasia? una domanda scottante per un caso celeberrimo accaduto proprio nella Francia di quegli anni) dove l’attenzione, al di là dell’andamento processuale impresso, è soprattutto rivolta all’analisi comportamentale dei giurati chiamati ad esprimere il giudizio che determinerà la sentenza, un “campionario d’umanità scolpito nella roccia dei loro difetti – grezzi, ottusi, sentimentali o finanche pagliacceschi – specie di ritratto sorprendente ed eccessivo della società francese del dopoguerra”, come lo definì Lourcelles), che gli valse il Leone d’oro a Venezia nel 1950 e l’Orso d’Oro a Berlino il successivo 1951, quando un film non era appannaggio esclusivo di una sola manifestazione, e poteva circolare liberamente in altri festival anche dopo aver vinto in uno di questi, il massimo riconoscimento, o di “Siamo tutti assassini” (Gran premio speciale della giuria a Cannes), vero e proprio atto di accusa verso una società che “produce assassini e poi pretende di giustiziarli”, oltre che di “Prima del diluvio” (un altro emblematico “interrogativo” giudiziario teso a provocare un’accesa diatriba sul tema delle corresponsabilità formative - anche di carattere morale - della collettività in relazione alle azioni “delittuose” dei giovani: le colpe e le condanne sono attribuibili a chi compie materialmente gli atti o sono invece addossabili a chi non è stato in grado di educare adeguatamente coloro che li hanno commessi, con riferimento specifico a società e famiglia?). “Il passaggio del Reno” (1960) si colloca in un periodo critico e fortemente involutivo: viene immediatamente dopo “Lo specchio a due facce” , un altro film che ha al suo attivo forse solo un certo interesse per la descrizione di un meschino ambiente piccoloborghese realizzato con un piglio meno predicatorio del solito, all’interno di una storia però puerilmente inverosimile e un po’ paradossale che indica la bellezza come l’elemento prioritario per una presa di coscienza della propria “miseria sociale” (del quale poi Barbara Streisand in tempi abbastanza recenti, ci ha dato un remake – per la verità molto infedele - con il suo “L’amore ha due facce”) e non si può certo ascrive fra i risultati più alti della sua carriera, anzi!! È un altro film a tesi, questo è indubbio ed acclarato, spettacolarmente “solo decoroso”, ma irrimediabilmente piatto, vuoto e mediocre da apparire persino irritante in molte sue parti… eppure (e questa forse è la pecca maggiore, per altro non attribuibile al regista, ma alle circostanze politiche della nostra Italietta di quegli anni che ne hanno fatto un “caso”) ha il gravissimo torto di aver scippato a Venezia (quella di Lonero, mostruosamente conformista, come adesso sarebbe persino impossibile immaginare nonostante le evidenti involuzioni del pensiero in atto, totalmente asservita al potere egemone della DC bacchettona e bigotta) il Leone d’oro al Visconti di “Rocco e i suoi fratelli” in una programmazione festivaliera che comunque vedeva in competizione anche “L’appartamento” di Billy Wilder e che quindi poteva trovare un accomodamento meno scandaloso nel verdetto pur nella (comunque indecorosa) negazione di una consacrazione Viscontiana che col senno di poi potranno considerare forse “inevitabile” con quel clima e quelle tematiche, nonostante il valore indiscusso e indiscutibile della sua opera in concorso. Forse è proprio questo aspetto “indegno” a primeggiare nel ricordo, a lasciare tracce negative, a far sbiadire ogni altro connotato di riconoscibilità, a rendere adesso ancora più estesa la voragine che separa inesorabilmente “Il passaggio del Reno” dagli altri due straordinari titoli citati, che sono invece cresciuti esponenzialmente di valore e di interesse come il buon vino che invecchia nelle botti e che di anno in anno acquisisce nuovi aromi e speciali sapidità. L’opera è, tutto sommato, di normale (anche se non eccelsa) amministrazione nella forma e quindi dobbiamo proprio attribuire al contesto socio politico così deprimente e oscurantista del periodo la responsabilità di averla “relegata ai margini” più di quanto era il suo demerito, fino ad immergerla per questo dentro un non volontario alone di “ridicolo” (voglio evitare di definirlo “marchio di infamia” perché non è poi proprio il regista che deve sentirsi “colpevole” e non è certo a lui che deve essere addossata la responsabilità della miopia “mirata” dei giurati). Ma tornando al film di Cayatte, proprio perché ho vissuto in “diretta” gli avvenimenti e gli esiti nefasti di quella stagione, cercherò di essere il più possibile oggettivo ed imparziale nell’esprimere un giudizio di merito, al di là delle poche parole già spese in apertura, compito che mi sembra particolarmente difficoltoso, non solo per le “posizioni” rabbiose di partenza che mi rendono fortemente prevenuto, ma anche per le scarse occasioni di “incontro” con l’opera riservate a questo titolo in tempi più recenti, nonostante la sua immeritata blasonatura a Venezia, che rendono difficile un aggiornamento bilanciato e ragionato del pensiero critico, oltre che per i flebili appigli che offre proprio a causa della sua declamata (ostentata) voglia di essere “controcorrente” ad ogni costo. Con questa pellicola, Cayatte cerca infatti di affrontare (ancora una volta a suo modo) le problematiche della guerra, della resistenza, e persino quelle ancora più ostiche del collaborazionismo durante e dopo il conflitto. Lo fa utilizzando una schematizzazione eccessiva delle posizione che è certamente “a doppio binario” (o cos’ a me appare), poiché analizza le esperienze, in apparenza parallele, ma in realtà opposte o persino contrapposte, di due differenti “deportati francesi” appartenenti anche a differenti classi sociali: un intellettuale e un fornaio. Entrambi riescono “fisicamente” a sopravvivere agli eventi della prigionia (potremmo dire che se la cavano tutt’altro che male), ma una volta rientrati in patria, approderanno a decisioni e scelte di vita diversificate che lasceranno il primo al di qua del Reno (Francia), nonostante che i sussulti del cuore siano di differente portata, mentre il secondo, il fornaio parigino che nutre anche a guerra finita una sottesa ma accentuata nostalgia per la Germania nazista che con lui è stata particolarmente generosa, arriverà a differenti e più radicali decisioni. La conclusione (discutibile? Non sarebbe certo una novità con questo regista, e credo che questo possa essere, oggi ancor più di prima proprio il termine adatto a definirla) vorrebbe avere il senso del paradosso: ognuno si sceglie la libertà “che si merita” (ma sarebbe solo una semplicizzazione del concetto perché a me sembra invece che intenda acquisire i toni accesi della polemica). E con il suo solito modo un po’ grezzo, in nome di questa ”supposta” polemica, Cayatte imposta un discorso frettoloso e generico che sembra proprio tagliato con l’accetta. La Francia che ritrovano Jean e Roger è confusamente caotica, gretta, meschina, sia per ciò che concerne le redazioni dei giornali, o i retrobottega dei panettieri (deludente e reazionaria in fondo). Per contro, invece, è proprio la Germania ad apparire dolce e bucolica, pena di maestose foreste, di case patriarcali e villaggi che tramandano amorevolmente intatte tradizioni dal passato. Una Germania dove i cosiddetti carcerieri” sono sensibili e buoni, più dei “custodi angelicati” che degli aguzzini veri e propri, e anche la popolazione è quanto di meglio ci si possa aspettare umanamente parlando in queste circostanze: i prigionieri di guerra in semi libertà vengono infatti “adottati” dalle famiglie locali che fanno a gara per accaparrarseli con un entusiasmo degno di più nobili cause, così da aprire loro le porte “persino” per acquisire posizioni di privilegio e di responsabilità nell’amministrazione locale, nonostante il loro essere “stranieri”. Insomma, secondo questo paradigma, Hitler e la guerra ci sono, esistono (impossibile “negarlo”) ma non danno troppa noia, né creano particolari danni, sono alla fine meno brutti di quanto si sia inteso dipingerli. Come stupirsi allora se in quest’ottica aberrante, Roger alla fine del conflitto preferirà ritornare in quella specie di “paradiso” ideale (e idealizzato dal regista) anziché restare a coltivare le sue frustrazioni nel marasma soffocante di una squallida botteguccia della banlieu, per di più alle prese con due donne (la moglie e la suocere) petulanti e brontolone che lo hanno da sempre tiranneggiato? E se anche il giornalista che ha condiviso una analoga esperienza “positiva” in prigionia deciderà in ultima analisi di rimanere in patria (quasi per cause di forza maggiore) ma con un malcelato rimpianto (che vorrebbe tentare di “agganciare” anche lo spettatore preso nel “giro” delle sensazioni positiviste che il film tende ad esaltare) per non saper decidere altrimenti? E’ in quest’ottica (e non è certo un caso) che Jean accompagna Roger fino al ponte (il famigerato “passaggio sul Reno”) seguendolo poi nella “traversata” con lo sguardo carico di nostalgia, rimanendo “attaccato” alla cancellata un po’ simbolica eretta “di qua dal fiume”, mentre ironicamente riecheggiano, fuori campo, le parole di una lettera che lui ancora non conosce: “io ti rendo la tua libertà”, scritta dalla sua compagna, la ex collaborazionista Florence messa al bando dai partigiani “traditi” (anche lui era stato un membro attivo della resistenza), disegnati qui come una cricca di rissosi energumeni molto simile a una banda di gangster). Difficile essere concilianti con una siffatta visione delle cose non credete? Potrebbe essere classificato come un revisionismo ante-litteram. Quello che è certo, è che si tratta di una posizione fortemente ambigua che fornisce la misura dell’involuzione Cayattiana e della sua “resa” incondizionata a un europeismo conciliatorio e consolatorio, decisamente qualunquista e di maniera, in nome di una “libertà” individuale che si distanzia, dissociandosi (e contrapponendosi sovrastandola) a quella libertà invocata e “raggiunta” dalle nazioni e dal mondo stesso che qui viene considerata meno necessaria e prioritaria. L’aver scelto come pretesto “quella” maniera “speciale” di esser prigionieri in Germania, decisamente ribaltata rispetto a ciò che conosciamo dei fatti più generalizzati tramandati dalla storia, potrà senz’altro costituire una piccola sacca anche reale, ma oggettivamente incapace di modificare il giudizio generale sulle posizioni ideologiche e comportamentali e assume proprio per questo i connotati di una “ragionata” scelta aprioristica di “spregiudicato” anticonformismo controcorrente per mischiare le carte e i giochi. Insomma una “nuova” parabola ad effetto con una conclusione un po’ bizzarra e difficilmente condivisibile. Tutto sommato allora rimane un film fortemente ambiguo e per questo “risibile” (possiamo finalmente dichiararlo?) appena sufficiente, anche se “tecnicamente” realizzato con destrezza (dialoghi scorrevoli, musica adeguata, fotografia ben calibrata piena di chiaroscuri dentro un biancoenero pastoso e variegato di Roger Fellous) e una recitazione coerente e appassionata di Charles Aznavour (Roger), George Riviére (Jean), Nicole Courcel, Betty Schinaider, Alfred Shieske e Georges Chamarat fra gli altri.

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