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Paris nous appartient

Regia di Jacques Rivette vedi scheda film

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La recensione su Paris nous appartient

di spopola
8 stelle

Parigi non appartiene a nessuno è un celebre motto del poeta Charles Péguy intenzionalmente ribaltato nel significato (ma se guardiamo bene alla fine nemmeno del tutto disatteso) dal trentenne Rivette, quando nel 1961 e dopo una lunga militanza quale critico di punta dei Cahiers du cinéma, esordì nel cinema di finzione (passando così dalla teoria alla pratica) con questo interessante (e poco conosciuto qui da noi in Italia) Paris nous appartient sceneggiato da Jean Gruault e prodotto da François Truffaut e Claude Chabrol.
Ancora un tantino accademica nella messa in scena, la pellicola contiene però in nuce tutte le tematiche e le situazioni (la dimensione del teatro, il complotto, il passaggio da un livello di realtà a un altro) che verranno elaborate poi e messe meglio a fuoco dal regista con le sue successive opere, e rappresenta quindi un indispensabile elemento di conoscenza per valutare l’insieme del suo lavoro partendo dalle origini.
Questo anomalo “giallo” di maniera (non saprei definirlo altrimenti) dove la suspense più che alla progressione della vicenda è affidata al confronto dei personaggi, alla creazione di un’atmosfera, all’innesto di elementi onirici o quasi (Bertrand Tavernier) è “dichiaratamente” influenzato – stilisticamente parlando – da Fritz Lang (di cui riproduce addirittura una sequenza da Metropolis)ed ha uno svolgimento “osmotico” spinto nella direzione del “romanzesco ermetico” che lo pone (dovendolo in qualche modo classificare e come giustamente ci ricorda il Mereghetti) a metà strada tra il feuilleton e la spy story da guerra fredda. Il tutto però rielaborato (mi verrebbe da dire “rivisitato”) in una insolita visione dinamicamente moderna e anticonvenzionale che tiene conto delle istanze di rinnovamento anche formale del periodo.
Cinematograficamente molto affascinante nel suo parlare soprattutto di teatro, ma declinato in una inedita modalità di rappresentazione che lo fa quasi diventare una versione esasperata della vita, il film trae origine da un complotto (o presunto tale) che ha radici lontane ma che si sviluppa dietro le quinte di una sala dove sulle assi del suo palcoscenico un regista, Gérard, sta provando con la sua compagnia, una nuova versione di Pericle principe di Tiro di Shakespeare: Whem I was born // Never was waves nor wind more violent etc. etc… che è stato tradotto così (versi 60-67 di una delle più conosciute versioni in lingua italiana del dramma shakespeariano): “quando nacqui, le onde e il vento del Nord non furono mai più così violente. Dalle sartie spazzarono via un gabbiere e con grondante destrezza saltarono da prora a poppa. Il nostromo fischiava, il capitano gridava e triplicava la confusione” .
 
Il dramma nel teatro allora, o forse meglio ancora, il teatro del dramma. Mentre però nel teatro (come per altro accade anche in Pericle) alla  fine – sia pure al termine di un viaggio spesso tortuoso - tutti i nodi vengono rigorosamente al pettine, la stessa cosa non accade invece con Rivette, perché il suo dramma (che ribadisco ancora punta soprattutto a una sintesi morale delle cose) che parla di “testi”, di “regia” e di “interpretazione”, seppure ambientato in quel contesto, rimane comunque e intenzionalmente fuori dal  recinto quasi  sacrale della scena (regole comprese) e soprattutto lontano da un palcoscenico “classicamente” e canonicamente inteso, il che consente al regista di “espandersi” senza troppe preoccupazioni formali anche in altre direzioni, per “montare” una tragedia in un dramma dai nodi invero molto “ingarbugliati”, che riguarda la parte parallela dell’intrigo e che coinvolge non solo la cerchia del gruppo di teatranti impegnati nelle prove, ma anche i loro consanguinei, i partners e gli organizzatori (e quindi non solo il regista Gérard e Anne, la protagonista femminile che interpreta il  ruolo di  Marina, ma anche Pierre, il suo enigmatico fratello, e con lui Ida, la sua amante, l’esule americano Philip Haufman e Terry Yordan che con lui divide il letto e la responsabilità organizzativa, la modella finlandese Birgitta e Jean-Bernard de George, finanziatore dello spettacolo) fino a  devastare le loro esistenze e a rendere instabili gli equilibri, soprattutto dopo la morte misteriosa (suicidio o omicidio? non si comprende bene cosa possa essere davvero accaduto) di un esule spagnolo di nome Juan che aveva composto alla chitarra le musiche di scena per lo spettacolo, incidendole su un nastro che è però andato inspiegabilmente perduto e che si immagina “rubato” intenzionalmente da qualcuno
.
Esattamente come la vita, Parigi non appartiene dunque a nessuno, sembra allora voler suggerire maliziosamente il regista a dispetto del titolo, forse per farci comprendere meglio (e accettare) attraverso il paradosso, l’intrecciata ragnatela degli eventi messi in movimento da una macchinazione internazionale spacciata per veritiera – opera addirittura della Falange, che si ritiene essere la principale responsabile della morte di Juan e di quella conseguente di Gérard – successiva vittima designata – un altro “esule” a suo modo - semplice transfuga dalla vita che ha provato inutilmente a salvarsi rifugiandosi in una per lui ben più vivida realtà – quella del teatro – ma che è stato poi bruscamente e brutalmente cacciato dall’agognato Théâtre de la Cité a cui era riuscito ad approdare, perché ritenuto  troppo subdolamente interessato alla messa in scena del suo Pericle fuori dagli schemi.
Non  appartiene davvero a nessuno allora, nemmeno a Philip Kaufman e Terry Yordan, ricca protettrice di artisti che tesse, “inventa” e crea i rapporti tra i componenti interni ed esterni alla troupe e, autopromuovendosi regista del dramma in corso, manipola e strumentalizza di volta in volta e a suo vantaggio mezze verità e menzogne, rivelazioni e segreti in nome di quel metafisico, immaginario complotto politico trasversale alle nazioni.
Ci troviamo  insomma davanti a un film valido soprattutto per la forma e lo stile, che prevale su un contenuto zeppo di intrighi irrisolti e forse irrisolvibili sullo sfondo di una Parigi (il film inizia con un vertiginoso dolly proprio sui tetti della città) mai altrettanto misteriosamente intrigante, ripresa e raccontata dalle prospettive più insolite e nascoste (anche visive parlando), lontanissime dall’iconografia turistica e indispensabili per fa comprendere appieno allo spettatore che si parla di un mondo certamente caotico e decisamente immorale, ma tutt’altro che irreale o assurdo, purtroppo.
 
Ma veniamo alla storia: la protagonista è Anne Goupil in trasferta a Parigi dalla provincia per laurearsi in Inglese. Fervida esegeta del teatro shakespeariano che conosce a menadito, si trova ad incrociare la sua vita con Gérard Lenz, velleitario regista “controcorrente” (fautore di un teatro che oggi definiremmo “underground”). L’incontro è interessante e fruttifero perché Gérard propone alla ragazza di interpretare il personaggio di Marina in una produzione del Pericle  (dramma incongruente se letto secondo l’ottica tradizionale, ma tutt’altro che assurdo se interpretato in chiave più moderna, che sono poi le parole che userà per convincerla ad accettare il ruolo e partecipare così all’impresa). Lei naturalmente accetta la proposta attratta anche dal fascino scontroso dell’uomo che la fa innamorare quasi subito. Il percorso “artistico” in comune però si rivelerà molto complicato, poiché essendo lei in pratica un’attrice fino a quel momento solo “virtuale”, pur conoscendo a menadito persino le virgole delle battute relative al personaggio che deve interpretare, non riesce però a renderne pienamente il senso, a comprendere e fare suo ciò che “vuole” e le richiede l’impostazione prevista dal regista. L’andamento è dunque fluttuante, e le prove fra scantinati e soffitte, oppure consumate all’aria aperta, diventano sempre più estenuanti con  risultati che stentano a manifestarsi in positivo e che suscitano per questo le ire sempre più frequenti di Gérard e lentamente fiaccano il loro rapporto anche sul versante amoroso.
In parallelo però tutto si tinge delle fosche tinte del noir (se così vogliamo definirlo) perché dopo la scomparsa di una vicina di casa e la morte sospetta del chitarrista Juan, l’ingenua e passionale Anne comincia ad indagare fino a scoprire quelle che ritiene essere le tracce del complotto, che indicano chiaramente che sarà Gérard la nuova vittima designata.
Le cose però staranno davvero in questo modo? La visione un po’ più realistica e meno idealizzante, potrebbe essere infatti quella di considerare un suicidio la morte di Juan, e che sarà l’altrettanto fragile Gérard a porre deliberatamente fine e di sua mano alla sua vita, entrambi soffocati e travolti dal crollo delle proprie speranze, sommersi dalla disillusione.
E anche il nastro “smarrito” di Juan  che dà il via al plot poliziesco e che impegna Anne più del necessario nella affannosa ricerca  condotta nelle pause lasciatele dallo studio, dagli affetti  e dal lavoro (le peripezie da un indirizzo all’altro, da un’amante all’altra per ricostruire la vita e i movimenti di Juan e da un mandante all’altro – presunti o reali che siano – si rivela in questa dimensione davvero poca cosa, poiché non si è trattato di un furto, ma è stato semplicemente  nascosto e conservato da Kaufman e Yordan, i quali,  avendo sposato ciecamente l’ipotesi della macchinazione e non credendo invece a quella che potremmo definire “l’utopia teatrale di Gérard”, lo hanno volutamente “sottratto” al suo creatore per ragioni private e nascosto agli altri per motivi di segretezza strategica.
 
All’interno della  coeva stagione della Nouvelle Vague  tuttavia, la pellicola di Rivette resta -  per quei tempi – un’esperienza  certamente stimolante ma forse ancora un tantino dogmatica soprattutto nell’utilizzo delle citazioni (che sono numerose) e nell’appesantire le immagini con la struttura narrativa dell’ingarbugliata storia, molto lontana insomma dai risultati più creativamente innovativi del periodo.
Gli efficaci protagonisti della storia sono due attori adesso poco conosciuti e ancor meno ricordati come Betty Schineider (Anne) e Gianni Esposito (Gérard), ma intorno a loro si muove una folta schiera di “celeberrime presenze”, da Jean-Claude Brialy a François Prévost, che annovera anche in piccoli ruoli secondari, la “partecipazione straordinaria” di Claude Chabrol, Jacques Demy e Jean-Luc Godard.

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