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Perfect Days

Regia di Wim Wenders vedi scheda film

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La recensione su Perfect Days

di maldoror
6 stelle

Un film che condensa tutto il cinema di Wenders, dall'amore incondizionato per Ozu alla fede nel potere dello sguardo di inventare la realtà. Questa volta, però, l'elogio della semplicità e della bellezza delle piccole cose potrebbe sollevare, a mio avviso, qualche interrogativo morale in più rispetto al passato.

 

"It's a new dawn/it's a new day/it's a new life for me/ and I'm feeling good".

 

I versi di "I'm feeling god" di Nina Simone chiudono il film di Wenders forse illuminandone il vero significato: ogni giorno è un giorno nuovo, una nuova alba, una nuova vita.

È forse per questo che il protagonista Hirayama termina la sua giornata di lavoro immergendosi in una vasca "uterina" e quindi dimenticando il giorno appena trascorso per rinascere al giorno nuovo. Forse, vuole dirci Wenders, la bellezza della vita consiste nel cogliere le differenze laddove sembra che tutto sia identico a sé stesso, così come i giorni di Hirayama, che sembrano tutti uguali ma, all'interno dei quali, egli riesce sempre a trovare qualcosa che lo sorprenda, come il fogliame degli alberi che lui ama tanto fotografare.

Il mondo in cui vive Hirayama è una sorta di fiume eracliteo in cui non ci si bagna mai due volte. Hirayama non misura il tempo in minuti, ore, mesi: per lui esiste solo l'adesso (come dirà alla nipote), mentre "un'altra volta è un'altra volta", non importa quando. Il momento presente è irripetibile, tutto è divenire.

Il segreto sta forse dunque nel (re)inventare la realtà attraverso lo sguardo (tema caro al regista tedesco già dai tempi di "Alice nelle città"), nell'allenare il nostro sguardo a cogliere i frammenti dell'eterno divenire che è la vita, e nel riuscire a sorprendersene. È solo a causa della pigrizia del nostro sguardo che la vita ci appare monotona e insopportabile.

In un mondo in cui non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume, ciò che conta non è la realtà in sé e per sé, ma la realtà (re)inventata dal nostro sguardo, adattata al nostro sguardo: i sogni di Hirayama sono in bianco e nero come le foto degli alberi da lui scattate in analogico: Hirayama adatta la realtà al proprio sguardo, al proprio mondo. Non importa la realtà oggettiva e assoluta, quel che conta è il modo in cui ciascuno di noi la percepisce.

Eloquente a questo proposito sembra essere l'incontro col malato terminale che si chiede se due ombre sovrapposte creino un'ombra più scura. Hirayama lo invita a fare l'esperimento, ma i due hanno percezioni diverse: per lui le due ombre si inscuriscono, all'altro sembra di no. Ben presto, però, i due uomini si stancano di chiedersi cosa sia vero o no e iniziano a giocare a "calpestarsi le ombre", come potrebbero fare due bambini che, invece di chiedersi il perché delle cose, ne rimangono meravigliati ed esprimono la meraviglia nel piacere del gioco.

 

In tutto questo, è ovvio, è impossibile non vedere Ozu (più nello spirito che nello stile: qui, al posto della proverbiale compostezza formale del regista giapponese abbiamo una macchina a mano che, con un piglio quasi documentaristico, tampina il nostro protagonista); impossibile non vedere l'elogio della semplicità, della cura e dell'attenzione al bene comune tipici della cultura giapponese ("a che serve essere così scrupolosi nel lavare un gabinetto se subito dovrà essere sporcato?", gli chiederà il giovane dipendente. Lo scopo è quello di far trovare un ambiente pulito a chi dovrà poi servirsene, e quindi, in ultima analisi, quello di creare un mondo migliore).

 

Detto questo, e ammesso che l'analisi sia corretta, durante e dopo la visione del film ho dovuto scontrarmi con alcune resistenze, con qualcosa che mi ha disturbato, e che potrei sintetizzare questi termini: innanzitutto, la meraviglia tanto evocata a parole non ha trovato, per quanto mi riguarda, riscontro nell'esperienza visiva: nello stile sciatto di "Perfect days" non ho trovato nulla di quella reale meraviglia visiva che mi ha catturato in film come "Nel corso del tempo", "Alice nelle città" o "Lo stato delle cose". Così come non l'ho trovata in "Non bussare alla mia porta", altro film osannato dai critici di FilmTv.

 

In secondo luogo: se guardiamo l'altra faccia della medaglia, siamo sicuri che il film di Wenders non possa diventare un invito ad accontentarsi di ciò che si ha, anche se quello che si ha non ce lo meritiamo?

Siamo sicuri che la filosofia del "rassegnati perché tanto la vita è bella", anche se si fa parte di una società ingiusta che ci costringe a fare un lavoro ingiusto, e in cui, molto probabilmente, i multimiliardari si godono la vita molto di più di un adetto alle pulizie, non possa pericolosamente trasformarsi in un elogio della schiavitù?

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