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Lo sposalizio di Dio

Regia di João César Monteiro vedi scheda film

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La recensione su Lo sposalizio di Dio

di Peppe Comune
8 stelle

João de Deus (João César Monteiro) è seduto sopra una panchina di un parco. Indossa la maglia della nazionale brasiliana, la numero nove di Ronaldo. Non ha un soldo e non possiede una casa. Ad un certo punto gli si fa davanti un uomo vestito in alta uniforme, si presenta come un messaggero di Dio (Luís Miguel Cintra) e gli consegna una valigia piena di soldi, sufficienti per renderlo “l’uomo più ricco del mondo”. Mentre è impegnato a contare i soldi, l’attenzione di João de Deus è distolta da una ragazza che tenta di suicidarsi nel fiume. Portatala in salvo, la conduce in un vicino convento. La giovane ragazza si chiama Joana (Rita Durão) e tra i due rimarrà un legame forte, forse l’unico che João de Deus ha avuto con una donna senza pensarla innanzitutto come un oggetto sessuale. Intanto João de Deus acquista il titolo di barone, entra in possesso di una grande villa e cerca di concupire quante più donne è possibile. Tra queste c’è anche la bellissima Elena Gombrowicz (Joana Azevedo), che si presenta come una principessa ma che, invece, potrebbe essere una semplice adescatrice che si concede ai vizi di João de Deus al solo scopo di raggirarlo.

 

 

“Lo sposalizio di Dio” di João César Monteiro chiude la trilogia incentrata sul personaggio di João de Deus, un alter ego perfetto del regista portoghese, la sua precisa trasfigurazione in chiave surreale. È un tipo strano João de Deus, un libertino gaudente sempre pronto a prendersi beffa dei gendarmi del potere e sempre a caccia di giovani fanciulle da concupire, non tanto per soddisfare un mero bisogno sessuale, ma per irretirle dentro i suoi giochi peccaminosi, per darsi totalmente alla gioiosa contemplazione del vizio.

Come in “Ricordi della casa gialla” e “La commedia di Dio”, la presenza dinoccolata e la personalità dissacrante di João de Deus si innestano all’interno di un’idea di cinema che rifugge irriducibilmente ogni ammiccamento modaiolo. La lentezza dei movimenti di macchina, l’uso della luce che apre voragini contemplative all’architettura della messinscena e l’abbondante presenza di lunghi piani fissi, fanno la cifra stilistica di un cinema che tende ad essere colto ed altro, per specifica adesione a precisi modelli culturali e per naturale propensione poetica. Un cinema sempre sospeso tra l’ironico e il riflessivo, tra la grottesca rappresentazione della condizione umana e le speculazioni filosofiche che se ne possono ricavare. La particolarità di Monteiro è che lui non sembra prendersi mai sul serio, sempre intento ad affogare in un mare di nonsense l’emergere delle riflessioni speculative sullo stato delle cose. Eppure il suo cinema è un invito continuo a penetrare gli angoli bui della nostra “dorata” modernità, così come João de Deus è fustigatore acuminato della mediocrità imperante. La chiave allegorica e la strada prescelta per dispiegare come meglio gli conviene il senso della narrazione filmica ; l’umorismo maneggiato come una spada affilata lo strumento usato per scagliarsi contro le coscienze dormienti. A emblematico titolo di esempio, si prenda tutta la sequenza a teatro (in perfetto stile “bunueliano”), con un principe nano, manichini a fare da massa critica dai palchi, nobili imbolsiti che intonano canti reazionari e João de Deus e la sua Elena che si danno all’appagamento erotico dei sensi. È una lucida follia la sua, che gli fa accettare tutta la limitatezza umana non meno di potersi pensare allo stesso livello di Dio.

Come già accennato, “Lo sposalizio di Dio” chiude il cerchio di vita di João de Deus, come dimostra in maniera lampante la parte finale del film, quando l’uomo viene arrestato perché nella sua villa sono stati ritrovate delle casse contenenti dei fucili e un carro armato. Il commissario che gli è di fronte passa velocemente in rassegna la sua vita (che è poi anche quella cinematografica) : ricoverato in una clinica psichiatrica perché “fece vedere i genitali a una bambina di nove anni” prima (“Una vera lezione di anatomia”, spiega de Deus, “il padre gli aveva insegnato che il cuore era al posto del pene”), commesso in una gelateria, nonché collezionista seriale di peli pubici, poi. E sempre senza un soldo e senza fissa dimora. Questa volta non è male in arnese, perché ha i soldi per poter essere, al contempo, benefattore e profittatore, mostrare distacco per la ricchezza sopraggiunta e assecondare in pieno il suo libertinismo cacciatore. Perchè le cosce aperte di una donna sono come uno scrigno peccaminoso che chiede solo di essere perlustrato con autentica venerazione. E João de Deus non si lascia pregare, comportandosi come uno scrupoloso cerimoniere che conduce le sue prede all’altare.

Già il titolo di questo film servirebbe a conferirgli un’impronta più marcatamente filosofica, più incline cioè a inserire le vicende di João de Deus nel più complesso quadro del creato (e il fotogramma che apre il film ne sarebbe un indizio) che a sostare intorno alle cose del mondo per farsene semplicemente beffa. João de Deus è un fustigatore imperterrito delle facce del potere, ma pratica il culto dei piaceri materiali. Una contraddizione che è solo apparente, perché trova il suo sviluppo coerente nel fatto che per de Deus, solo nella contemplazione distaccata dei propri vizi si può trovare riparo dalla schiavitù del bisogno. Accusato (tra le altre cose) di essere a capo di un gruppo di monarchici che fomenta la sua battaglia reazionaria al grido “abbasso la tirannia della libertà”, João de Deus è in realtà un anarchico conservatore che ama riallacciare i fili con la classicità perduta e costruire ponti per intrecciare i diversi fatti della storia. È sempre in contrasto con la morale corrente, che ogni volta scambia le sue originali stravaganze per pericolosi atti sovversivi.

Ad una suora che gli chiede se crede in Dio, João risponde che “non è una questione di credenza, ma una questione di fiducia. Dio è misterioso”. E João de Deus sembra giocarci con il mistero, divertendosi a camminare sui bordi scivolosi dei suoi articolati compromessi, su quel limite che separa la sfida imperitura all’ordine costituito e la serena abitudine alla sconfitta. Perché Dio fa parte della narrazione del mondo, e non gli sembra una cosa meno concreta e tentatrice del denaro, che gli si presenta come un angelo messaggero da cui è meglio liberarsi in fretta : sia per abbandonarsi ai più gustosi piaceri della vita, sia per non confondere la libertà dei sensi con le costrizioni del corpo. Perché “dal cadavere di un uomo libero si può ottenere fetore, ma mai uno schiavo”. Così pensa e così è João de Deus, un iconoclasta irriverente che usa l’arguta arma del paradosso per rimanere sempre in credito con quanto prescrive il potere dei più forti. Viva João César Monteiro.                                    

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