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Anatomia di una caduta

Regia di Justine Triet vedi scheda film

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La recensione su Anatomia di una caduta

di EightAndHalf
7 stelle

Il titolo della Palma d’Oro 2023, Anatomia di una caduta di Justine Triet, promette di completare una trilogia di titoli che con l’idea di anatomia associano un’idea di dissezione entomologica di un evento: Anatomia di un omicidio di Otto Preminger, e Anatomia di un rapimento di Akira Kurosawa. Salvo il fatto che nel caso di Kurosawa “anatomia” non appare nel titolo originale (che è un più largo e metafisico Tengoku to Jigoku, cioè Heaven and Hell).  Salvo ancora il fatto che in realtà il film più anatomico dei tre è davvero Kurosawa. In tutti e tre i casi c’è però un crimine, in Triet e Preminger c’è un processo, in Kurosawa e Preminger c’è un quadro molto largo della società protagonista del film, in Triet e Kurosawa c’è un bambino. In tutti e tre c’è del materiale umano che viene messo su un tavolo di indizi, e la legge (o l’indagine in Kurosawa) costringe a incorniciare l’imprevedibile e l’incomprensibile, a dare una forma scientifica a quel materiale, a dare una chiusa al senso delle cose che senso forse non ne hanno. In tutti e tre si vive quest’angoscia della provache verifichi, dell’immagine che dimostri, del dettaglio che riveli. La verità giudiziaria, investigativa, processuale.

Ma le altre verità? La cosa più sorprendente di Anatomie d’une chute – e che forse non riguarda gli altri due titoli – è che forse la verità l’abbiamo sempre saputa, quantomeno la verità dei personaggi, il loro dramma interiore, il contrasto base che li divide ma che li rende materiale umano. È già tutto nei primi 5 minuti di film. Il resto sono dettagli, aggiunti al banco delle prove: dettagli che non fanno l’umano, che non fanno il rapporto di coppia e che non fanno sicuramente un rapporto familiare, un legame fra una madre e un figlio che viene lentamente e chirurgicamente demolito perché tutto diventi un numero sullo schedario di una giuria, o una frase sul foglio di uno stenografo. Probabilmente anche la caduta del titolo è in realtà un dettaglio. E allora è chiaro che Anatomie d’une chute non è un thriller perché dal punto di vista degli avvocati è “solo” lavoro, e dal punto di vista dei personaggi è solo l’attesa di una verità giudiziaria: la verità dell’umano rimane nota nel suo cuore, al massimo sbilenca fra ricordi sbagliati e piccole bugie, e non assomiglia alla verità giudiziaria che è contorta e fantascientifica, che trasforma un piano fisso della regia di Justine Triet in un improvviso movimento di macchina, secco e brusco come fosse l’inquadratura diegetica di un giornalista, o la ripresa amatoriale di qualcuno che vuole sentire tutto per accumulare altro materiale probante, altri oggetti su cui dibattere, altre cianfrusaglie. Le registrazioni sentite durante il processo prima diventano le immagini del film, poi diventano i primi piani di chi le ascolta, e poi diventano le immagini di un dialogo trascritto trasmesso su uno schermo: queste registrazioni sono esattamente il misuratore con cui Justine Triet cerca di definire questi generi diversi di verità, e le loro mutue traduzioni.

È inevitabile dunque che il processo arrivi a un crac quando la professione di scrittrice di Sandra, la madre accusata dell’omicidio del marito, fa il suo ingresso in aula tramite le frasi che ha scritto Sandra stessa nei suoi libri, e che sono un altro tipo di traduzione ancora. Sono la traduzione della sua vita, trascritta come arena di sfoghi e frustrazioni personali sulla pagina bianca, assunti come prove dal pubblico ministero e rigettate dalla difesa come “pura fantasia”. Noi in quel caso da che parte stiamo? La stessa confusione della risposta che daremmo a questa domanda sta nella confusione dei cambi di registro della regia di Triet, che – come già detto – sembra diventare interna al racconto, si confonde con il desiderio di trasformare il melodramma in cartella clinica, e alla fine rimane solo con la certezza che qualcuno è morto. La certezza di un lutto. E allora davvero Anatomie d’une chute è un film di traduzioni – dall’inglese al francese, dalla vita al romanzo, dal melodramma all’indagine giudiziaria – e a cosa si perde nel mezzo, a quanto cambi la verità a seconda del tipo di traduzione, a quante più verità siano in grado di coesistere, a quale verità decidiamo di dare ascolto. Non è detto che la verità giudiziaria e la verità umana siano la stessa cosa perché sono momenti che non si possono incontrare, e il materiale umano che c’è fra di loro è fatto quasi esclusivamente di incomprensioni e di vite che devono convivere con errori che una traduzione non può ammettere.

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