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Lubo

Regia di Giorgio Diritti vedi scheda film

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La recensione su Lubo

di EightAndHalf
5 stelle

Per la prima volta al Festival di Venezia, Giorgio Diritti porta in concorso Lubo, film-fiume di 3 ore su uno zingaro Jenisch che in Svizzera nel 1939 viene costretto alla leva dall’esercito elvetico per venire a sapere subito dopo che la sua compagna è stata uccisa e i suoi figli portati via. Per sfuggire poi alla guerra, Lubo uccide un trafficante ebreo al confine austro-svizzero e si sostituisce a lui, conducendo per 12 anni una vita ricca e borghese vendendo gioielli e integrandosi nella classe dominante della mitteleuropa durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma la menzogna non durerà per sempre, e Giorgio Diritti asseconda il mascheramento di Lubo (che diventa Bruno) per mascherare in realtà il film stesso, che assume le sembianze di un ritratto distaccato e poco drammatico di un uomo conteso fra la ricerca dei figli perduti e la creazione di una nuova realtà e di una nuova famiglia.

Finché procede con il mascheramento, il film stesso diventa subliminale con le strategie di Lubo, che trasforma ogni menzogna in una performance, cambiando lingue, abiti, portamenti. Rimanendo sempre uno zingaro nomade ma acquisendo nuove capacità, imparando dalle falsità del mondo europeo del secondo dopoguerra modi nuovi per fingere e improvvisare. Fino a diventare un tutt’uno con il mascheramento, finendo per crederci davvero, come immerso in un’illusione collettiva che la guerra sia davvero finita. 

In realtà, ci dice il vero tema del film, la guerra non è ancora iniziata. Perché la guerra è combattere per svelare tutti i crimini che la baraonda guerrafondaia ha spazzato via, tra polvere e migliaia di documenti. Lubo cerca di scoprire la verità e si illude di poter dimenticare, ma nega a se stesso la realtà di una vita passata a cercare, a elencare esperienze e documenti riguardanti il rapimento dei bambini Jenisch previsto dalla Costituzione svizzera durante gli anni della guerra. Per scoprire, ancora, che i promotori di quella stessa legge funesta continuano a perpetrare sottobanco i loro crimini infanticidi e pedofili dietro l’apparenza di un piccolo elegante Canton Ticino anche negli Anni Cinquanta, e che quegli stessi promotori non verranno riconosciuti come colpevoli prima degli Anni Ottanta.

L’altra verità però che il film non riesce a mascherare è che Giorgio Diritti non è un regista di melodrammi. Il suo Lubo ha l’ambizione di certi film fiume che il nostro cinema sapeva e voleva produrre fino agli Anni Ottanta del secolo scorso, ma manca di quell’afflato epico responsabile di altre leggende. Lubo rimane irrisolto, monco, un polpettone sbrodolante che vive in dipendenza di una tesi che non giustifica il ritmo scialbo delle prime due ore e mezza. Indirizzandosi, nell’ultima mezz’ora, sull’unico obbiettivo che desiderava; forse illudendosi, ancora, che l’interpretazione del mimetico Franz Rogowski possa rappresentare da sé il volteggiare identitario del suo protagonista. Procedendo sottotono con una storia che richiedeva meno discrezione. Non è che forse il mascheramento è solo un alibi strutturale per confessare che Diritti non è un regista di drammi?

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