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L'amore è più freddo della morte

Regia di Rainer Werner Fassbinder vedi scheda film

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La recensione su L'amore è più freddo della morte

di EightAndHalf
7 stelle

Parlare di minimalismo, nel caso del primo lungometraggio di Rainer Werner Fassbinder, sarebbe riduttivo oltre che fuorviante. Lo stile non è minimalista, affatto, è strabordante di trovate, di guizzi e di piani-sequenza che certo non mirano all'essenziale, ma mobilitano l'essenzialità delle azioni umane dei protagonisti. Non si può certo parlare, infatti, di un'adesione completa al vuoto dei personaggi; o, quantomeno, quest'adesione è mediata da uno stile spiccatamente cinico e disincantato, brutale quando necessario, serrato e assai evocativo anche quando l'inquadratura è immobile e i personaggi vagano alla ricerca di qualcosa di inafferrabile, non perché alto ma perché, forse, assente. Ciò che ne viene fuori è un oggetto cinematografico curioso ed accattivante, che grazie ad un montaggio assai lungimirante che shocka anche negli scarti più innocui (che talvolta interrompono di netto il sottofondo musicale, talvolta spezzano in due i dialoghi, talvolta alternano campi lunghi e primi piani) la dice lunga sul destino delle relazioni umane, e di come la morte che tanto fugge ed è fuggita già alberghi in quegli spazi che stanno fra una persona e un'altra, proprio come quello spazio che nella penultima inquadratura Fassbinder riprende: il gap fisico/emozionale/umano fra due persone distanti e lontane, inavvicinabili neanche con contatto fisico, attraverso palpatine e carezze che proprio quei due stessi personaggi, lungo il corso della pellicola, si sono scambiati. L'innavicinabilità degli esseri, e una conseguente latenza nelle indefinibili autocoscienze.
Ma non è solo la dimensione contenutistica ad essere analizzata, anzi, forse rappresenta proprio l'aspetto meno importante, seppur interessante, del primo vero film del regista tedesco, il suo terzo se consideriamo i due precedenti cortometraggi. E' l'aspetto estetico e stilistico invero, come già detto, a fare la differenza e a definire i canoni (irregolari, ribelli) di un notevole linguaggio artistico, ed è anche indubbiamente vero che questo stile tanto particolare quanto (pre)potente sa imporsi chiarificando evidentemente il suo intento, osservare un mondo in cui l'assurdo dell'immoralità diviene asserto del quotidiano e in cui i rapporti umani si stanno infreddolendo come il contesto asettico e spoglio dello sfondo. I personaggi stessi, quasi sempre in movimento e mobili, seppur inerti, diventano il tavolo sperimentale su cui Fassbinder rende originale gli eventi banali (sottolineandone, forse, la portata assurda, o la forza assurdamente banale, come nella lunghissima splendida scena del supermercato, avvicinabile esteticamente ma non tematicamente, per certi versi, alla lunghissima sequenza ben più chiara ed esplicita di Crepa padrone, tutto va bene, arrivato tre anni dopo [ed è indubbio l'influsso della Nouvelle vague godardiana]) e crea una storia che si intesse da sola mettendo in gioco un libero arbitrio che non fa sfoggio di sé ma che è sul punto di trasformarsi in casualità, brutalità, rigido calcolo, manierismo. Sia chiaro, non è lo stile ad essere maniera, ma la vita stessa, e non perché tesa all'esibizione vuota e pedante di certi stilemi, ma perché protesa verso una ripetizione pedissequa e mortuaria che ha già smesso di voler testimoniare all'uomo stesso la sua presenza, la sua configurazione, la sua esistenza. Tutti gli esseri umani, difficilmente separabili da fondali bianchi, dispersi e sfuggenti nella loro precarietà, sono tutti coinvolti in un incedere violento e sanguinario che non guarda in faccia nessuno, si è dimenticato da un pezzo della pietà ed è costretto a guardarsi le spalle per evitare di farsi uccidere; le armi, come in Il vagabondo, sono presagio di qualcosa già prevedibile e pericolosamente insignificante, di una morte data per scontato e sottovalutata; i corpi, che si dispiegano come su un foglio di carta nel nudo appartamento del protagonista interpretato da Fassbinder stesso e da Hanna Schygulla, come anche nel locale dove il "Sindacato" chiede a Fassbinder di lavorare per lui, sono contenitori vuoti, esteriori involucri fatui che galleggiano in un aere nichilista, inconcepibile, paurosamente armonico con la decadente presenza della carne. Il risultato è che si ha la netta sensazione di vedere attraverso occhi vividi, vivi e vitali uno squarcio desolante - e talmente contraddittorio da annullarsi - di umane e animalesche empietà. Imperfetto, come tutte le opere davvero originali; destabilizzante quanto basta, come un occhio vivace e cangiante che squadra la freddezza statica e angosciosa dell'amore e della morte, tra le quali non c'è più tanta differenza.

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