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La chimera

Regia di Alice Rohrwacher vedi scheda film

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La recensione su La chimera

di EightAndHalf
4 stelle

Le chimere sono quei procedimenti sovrannaturali con cui Arthur, il belloccio malconcio britannico finito in Etruria per amore e matrimonio, riesce a trovare, tramite un filo d’erba bislungo, tombe etrusche mai scovate dagli archeologi autorizzati. Ovviamente la chimera è anche il mostro della mitologia greca che vomita fiamme, ed è anche l’utopia di un sogno vano e irrealizzabile. È anche un romanzo storico di Sebastiano Vassalli, tra le altre cose, ma tra il film e la mitica storia della strega Antonia non c’è legame alcuno, se non forse quello di (tentare di) parlare dell’oggi tramite lo ieri.

Quando Alice Rohrwacher decide di narrare la storia di Arthur, non può fare a meno di narrare anche questo luogo in cui c’era l’innamorata di lui e in cui ora, privato della stessa, egli si ritrova perduto e ramingo, tra l’amore/odio per i compagni criminali con cui viola le sepulture antiche e l’affetto per la madre di Beniamina, Isabella Rossellini, ostinata a rimanere nello scheletro ammuffito di una meravigliosa villa laziale. A fianco di questi personaggi, ce ne sono tanti altri che fanno la loro apparizione saltellante in questo grande carnevale della fiabetta di riporto, in cui l’emozione è affidata quasi esclusivamente a silenzi contemplativi, frasi ad effetto (“Non sei fatta per gli occhi dei vivi” ripetuta n volte) e piccoli vezzi di regia, a partire da quelli propri della chimera di Arthur per i quali all’occorrenza la camera decide di capovolgersi a 180 gradi per mettere il cielo sotto la terra e viceversa, come anche per rendere le vertigini del protagonista, novello Lazzaro triste e coscientemente rabdomante, non più ingenuo come il precedente eroe rohrwacheriano ma destinato inevitabilmente alla purezza. 

Per non parlare delle 3 o 4 stoccatine femministe che fanno da rattoppo qui e lì totalmente decontestualizzate.

Se si può concedere ad Alice Rohrwacher di aver trovato, con La Chimera prima che con altri suoi film, una sintesi del suo stile che più facilmente ancora la avvia alla maniera - quindi a un formato che la rende comunque riconoscibile, a una mano autoriale ben distinguibile - non si può però concedere a La Chimera di essere un film riuscito, quanto piuttosto un cabaret singhiozzante di aneddoti visivi e parabole di levità forzata e stucchevole. Il debole senso di straniamento - posticciamente sergio-cittiano - di scenografie spoglie, indistinguibili e al massimo suburbane che hanno sempre interessato la sua cinematografia, e che qui vengono incoraggiate dalla presenza maggioritaria di non italiani fra i personaggi, è la più facile via post-pasoliniana con cui la regista toscana può sfornare il suo poeticismo della povertà e delle catapecchie, senza andare davvero a scalfire la nostra lettura in prospettiva della storia e dell’antichità: questa archeologia è quella della bellezza data per scontata di un turista casuale in un museo, e non di una regista che vuole parlare di un territorio, di uno scontro fra culture, di una purezza unicamente atavica. I film di Rohrwacher, non di meno questa caotica Chimera che illude di perdersi piacevolmente per poi ritrovarsi nelle solite trovate da favoletta per bambini, non hanno nulla di antico o di atavico. Sono invece la risposta immediata e frenetica ai più entusiastici feticismi nostalgici del cinema del nuovo millennio, a partire dai gratuiti cambi di formato e dalla grana della pellicola - forse la cosa più stucchevole di tutto il film - fino alla totale incapacità di dire alcunché del presente se non che sarebbe bello se ci ripulissimo le coscienze e rispettassimo il sacro dell’arte e della storia. Il corrispettivo cinematografico dell’utilità pratica di un accendino acceso al concerto del cantante pop di turno che per convincere della sua destrezza e della sua conoscenza intellettuale a un certo punto tira fuori un flauto aulos degli Etruschi dopo essersi ben informato su Wikipedia.

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