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The Fabelmans

Regia di Steven Spielberg vedi scheda film

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La recensione su The Fabelmans

di Antisistema
8 stelle

Con la presente recensione, siamo all’ultimo giorno dell’anno. Il film in questione è fatto per unire, obiettivo da sempre perseguito da Steven Spielberg. Quindi spero sia di vostro gradimento e con la presente vi auguro un felice anno 2023, che sia colmo di eventi positivi e in merito al cinema, di belle visioni.

“L’arrivo del treno alla stazione di La Ciotat” dei fratelli Lumiere (1896), rappresentò la prima immagine spettacolare della storia del cinema, che tutti hanno cercato di replicare nel corso dei decenni, di frame in frame, apportando modifiche e cambiamenti, senza mutarne mai l’essenza alla base.
Le cronache dell’epoca riportano reazioni di panico da parte degli spettatori, un effetto non voluto certamente dagli inventori del cinema, che inavvertitamente avevano ingenerato il potere dell’emozione scaturito, non dalla meraviglia dell’invenzione del cinematografo come mezzo tecnico, ma dalle immagine stesse sullo schermo. Steven Spielberg tramite “Fabelsman” (2022), ritorna alla scintilla da cui nacque il proprio cinema; “Il più Grande Spettacolo del Mondo” di Cecil B. De Mille (1952), ossessionato dall’impatto catastrofico, ma al tempo stesso spettacolare nella sua distruttività, tra il treno in corsa e l’auto sui binari.
Replicare quell’emozione, per superarne la paura, sarà la missione primaria da parte del piccolo Sammy Fablesman (Gabriel La Belle), chiuso nella sua piccola stanza buia, in cui le fonti di luce allontanano l’oscurità di essa, generando il senso del meraviglioso, tramite le immagini racchiuse in un palmo della mano.
“Fabelsman”, personale amarcord di Steven Spielberg, non deve essere etichettato frettolosamente come un mero film cinefilo, sotto questo punto di vista tranne l’opera menzionata in precedenza e la proiezione del film “L’Uomo che Uccise Liberty Valance” di John Ford (1962), di pellicole formanti se ne vedono poche, perché Sammy/Spielberg è prima di tutto un “Film-maker”, quindi un creatore di immagini a tutto tondo, partendo dalla pre-produzione, passando per la realizzazione concreta tramite la macchina da presa, creando poi le luci necessarie per la scena ed infine montatore dell’opera stessa.
Una catena di processi lunga, complessa e tortuosa. Molto più di un mero hobby, come vorrebbe liquidarlo suo padre Burt (Paul Dano), un freddo informatico, il cui lavoro però contribuisce al benessere della famiglia e soprattutto al portare avanti a livello di “mezzi” l’indole artistica di Sam, incoraggiata però dalla madre Mitzi (Michelle Williams), ex-pianista che ha sacrificato tutto per i figli.
Ci si ritrova davanti non ad un film cinefilo, ma sul cinema e la formazione che esso genera in Sammy, che dai piccoli corti western e bellici, matura una lezione mai immaginata tramite la settima arte; il dolore scaturito immagini, che disvelano una realtà amara quanto spesso messa in secondo piano dall’occhio umano.
Ma solo la lente d’ingrandimento dato dall’incessante andare avanti ed indietro della bobina cinematografica, è in grado di restituire, la verità a cui si era ciechi, in quanto ingenuamente chiusi nel buio della propria cameretta.
Spielberg all’età di 75 anni, crea una scena da storia del cinema in un genere inflazionato come quello dell’amarcord, mostrando notevole inventiva e comprensione teorica, tecnica e pratica del mezzo cinematografico, montando la sequenza, secondo un taglio incessante sempre più ansiogeno, giocando con un montaggio alternato tra l’atroce scoperta del tradimento e l’esecuzione al piano da parte della madre.

Il cinema e non la cinefilia, continua ad essere la bussola secondo la quale si muove il film, quando Sam ha il coraggio di rivelare alla madre i propri sentimenti di ostilità, mostrandole le immagini nude e crude, che generano l’orrore e abbattimento da parte di Mitzi immersa in un ciclo emotivo, da cui esce dopo la proiezione intimamente devastata, tanto quanto il figlio in attesa seduto sul letto, logorato dalla tensione, come se fosse una prima cinematografica, in attesa del verdetto.
Crescita dolorosa e primi passi compiuti nella realizzazione dei corti, con pochi mezzi, povertà di budget, attori presi tra amici e parenti, ma tanta e tanta inventiva creativa, nell’unire la componente emotiva a quella spettacolare - le esplosioni, simulate con semplice sabbia messa su delle assi di legno nascoste in buche -, che sarà il marchio di riconoscibilità di Steven Spielberg, che poi spesso, svenderà il proprio talento in produzioni dove gli effettoni fagocitano tutto e la spettacolarità, diviene mera spettacolarizzazione fine a sé stessa, unita ad un’emotività divenuta di frequente retorica.   
Ma almeno nella fase iniziale di carriera e successivamente di tanto in tanto, “Fabelsman”, riesce a far comprendere come il dolore della realtà venga rivestito di una componente metafisico-escapista; un camion in “Duel” (1971), “Lo Squalo” (1975) nell’omonima pellicola e gli alieni in “Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo” (1977) o “ET – L’Extraterrestre” (1982), che nella presente pellicola passa per rendere “eroe” persino il proprio bullo a scuola, perché l’inventiva artistica, è un processo ingestibile anche a chi ne è estremamente dotato – persino nella realizzazione filmica stessa, eccedendo di sgarbata auto-ironia -.
Spielberg, autore anche della sceneggiatura assieme a Tony Kushner, gira quindi la sua opera più personale ed auto-biografica, filtrando la propria infanzia degli anni 50’ e 60’, tramite il potere del cinema, che finisce con il rendere conciliante il rapporto tra madre e padre, nonostante la crisi netta, giungendo a suo modo a dare il classico colpo sia al cerchio che alla botte, senza voler prendere una posizione netta, come del resto è l’interpretazione di Michelle Williams, si sofferta e “perfettina” attorialmente, ma non genuinamente autentica sino in fondo, nell’interpretare una casalinga frustrata in crisi esistenziale, immettendo nella propria recitazione troppi tic e movimenti superflui, che la rendono eccessivamente artefatta e calcolata, quindi meno sincera, seppur indubbiamente le tre migliori sequenze del film (tradimento, danza e visione del primo corto), abbiano sempre lei al centro della scena.
Tra i maschi, se Gabrielle La Belle si conferma una bella scoperta recitativa, David Lynch un John Ford estremamente istruttivo nella sua sinteticità espositiva in merito all’uso dell’orizzonte e Seth Roger un mellifluo personaggio; Paul Dano svetta su tutti, regalando la miglior prova della sua carriera, depurando la sua recitazione da tutti i manierismi isterici, a favore di una sobrietà alienata nello sguardo, comunicando una molteplice stratificazione emotiva.
Un prodotto intimo, genuinamente autoreferenziale, emotivamente autentico nella sua disugualità di scene e scenette comico-drammatiche, ma snobbato dal pubblico odierno, che nel 2022, con il flop catastrofico ai botteghini, ha decretato la morte della sala e soprattutto il rifiuto dell’idea di cinema alla base del pensiero di Steven Spielberg, che potrà bearsi dei consensi della critica – anche se oltremodo esagerati -, ma senza gli spettatori, non ha più ragion d’essere.

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