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Preferisco il rumore del mare

Regia di Mimmo Calopresti vedi scheda film

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La recensione su Preferisco il rumore del mare

di LorCio
7 stelle

“Fabbricare, fabbricare, fabbricare | Preferisco il rumore del mare”. Mimmo Calopresti parte da qui, dai versi asciutti e viscerali di Dino Campana, per dipingere un ritratto individuale (ma anche corale) sui tormenti interiori. E allo stesso tempo, accanto al tema particolare del naufragio esistenziale del protagonista, Calopresti fa qualcosa di più rispetto ad un dramma sentimentale (per quanto essenziale). C’è una indagine sociale, sulle differenze e le tensione fra Nord e Sud, così terribilmente (e realmente) interpretate da Campana nei versi di cui sopra. È un racconto di formazione in cui i personaggi principali non sono ancora completamente cresciuti: non solo i due ragazzi, nel pieno del rigoglio adolescenziale, ma anche il padre, l’uomo in crisi prima con se stesso e poi con gli altri: vivono la vita con l’incertezza del provvisorio. C’è Matteo, il figlio di papà minato dall’insoddisfazione; e c’è Rosario, il ragazzo calabrese dalla faccia sporca e dalla coscienza pulita: tra di loro nasce un rapporto di amicizia sofferto e difficile, inevitabilmente sboccante in una sorta di conclusione amara e sconsolata (il finale è aperto – ma fino ad un certo punto). Dalla Calabria a Torino il quotidiano è diverso e l’incessante fare della città industriale non ha niente a che fare con il placido sentire dell’ondeggiare marino: in quel di Torino perfino i sentimenti sono relegati a riempitivi esistenziali dai quali attingere soltanto quando non si sa come andare avanti. Luigi ne è l’espressione più importante, dal suo rapporto con la fidanzata ai tentativi di coltivare il legame padre-figlio.

 

Con lo stile rigoroso e scarno che gli è congeniale, nonché con una rapidità narrativa apprezzabile, Calopresti dirige con dolente piglio un’opera sensibile eppure volutamente fredda (l’apparente distacco tra l’autore e i suoi personaggi torinesi – al contrario, in Calabria, il calore umano, anche violento, è percepibile), colorata tiepidamente dalla fotografia polare di Luca Bigazzi nei suoi lati più controversi (la fabbrica e le ville degli industriali, la periferia e la comunità di recupero). Scorre quietamente come il mare fino a scontrarsi con gli scogli quando si raggiungono le vette del racconto (il tentato suicidio di Matteo durante la notte di capodanno – «Ho messo un po’ ordine in casa. È incredibile quante cose inutili ci sono. Compreso me»). Silvio Orlando è sublime nell’incarnare con ansia sommessa il suo subdolo Luigi, anima del racconto in cerca di un riparo sicuro. Lo troverà nell’amico prete della comunità di recupero, guarda caso un “terrone” come lui (lo stesso Calopresti in una sorta di Don Ciotti). Forse anche lui preferisce il rumore del mare, ma non lo vuole (o non lo sa) ammettere.

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