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Il potere del cane

Regia di Jane Campion vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il potere del cane

di laulilla
9 stelle

Nasce dalla conoscenza del romanzo e dalla visione del film questa presentazione dell'ultima fatica di Jane Campion, che le ha fatto guadagnare a Venezia, quest'anno, il premio per la miglior regia, dividendo pubblico e soprattutto critici nostrani che in altri registi riponevano le loro speranze.

 

Ritorno al cinema della regista neo-zelandese, assente dal grande schermo dai tempi di Bright Star (2009), indotta in tentazione dal grande e insolito romanzo di Thomas Savage: The Power of the Dog.

Jane Campion ne ha deciso la trasposizione cinematografica, dopo molte incertezze e soprattutto dopo  aver intravisto la possibilità di ribaltarne l’ottica, tipicamente maschile, da antico racconto western

L’opera di Savage è del 1966, ma ciò che vi si racconta era avvenuto fra l’inizio del ‘900 e il 1925, quando nelle società occidentali - nonostante gli studi freudiani e la scoperta dei diversi livelli dell’Ego - le pulsioni elementari e gli istinti primordiali erano ancora taciuti e avvolti, per lo più, da un’ipocrisia pudibonda.

Agli occhi della regista neo-zelandese, quel romanzo presentava più di un varco per penetrare profondamente nelle tensioni irrisolte dei personaggi, di cui era percepibile la solitudine profonda, sottolineata dalla presenza insistita di specchi, segnali dell’inevitabile narcisismo di certi comportamenti che, nella difficoltà di comunicare, lasciavano intuire la più terribile disperazione mascherata da superiorità.
Nella nuova Zelanda, fra rocce, praterie ed acque specchianti, il Montana di Savage poteva rinascere, dunque: con quello sfondo montuoso che esclude dalla vista ciò che è oltre ma che talvolta s’affaccia, inquietante visione, all’orizzonte.
Ne è nato questo film che si colloca perfettamente all’interno del suo modo visionario di raccontare indicando, al di là delle apparenze, presenze e fantasmi oscuri e costringendo gli spettatori ad accettare i frequenti ribaltamenti delle situazioni, non sempre facilmente decifrabili.

 

 

 

 

 

 

Uno spettro si aggira per il film: lo spettro di Bronco Henry, maestro di vita e coraggioso mentore  di Phil, uno dei fratelli  Burbank, che nel 1925 erano i più ricchi ranchers del Montana: le loro mandrie pascolavano fra le ampie vallate e la pianura dove sorgeva la casa di famiglia.

 

Due fratelli

Phil (Benedict Cumberbatch), che aveva studiato con brillanti risultati, in realtà aveva imparato a vivere grazie agli insegnamenti di Bronco Henry, che gli aveva insegnato a prendersi cura del proprio corpo, a conoscere gli animali, la natura, e gli uomini, nonché a cavalcare. Era diventato, a sua volta, un bravo domatore di cavalli, mentre molte altre qualità ne avevano fatto un uomo ammirato e rispettato. Nessuno come lui sapeva castrare, a mani nude e al momento opportuno, con operazione rapida e incruenta, i torelli che subito dopo marchiava a fuoco rendendo indiscutibile la loro proprietà. Nessuno come lui sapeva sorvegliare, anche da lontano, i suoi dipendenti, addetti alla pastorizia, poiché conosceva i modi per  farsi obbedire, e quelli per umiliare, cosicché intorno a lui aleggiava, oltre all’ammirazione, anche molta rabbia e spesso molto odio.
Phil era un macho convinto: disprezzava ogni forma di tenerezza e le donne, che non voleva fra i piedi, così come detestava i maschi effeminati e paurosi. Non si curava della pulizia personale e preferiva temprare il proprio corpo a ogni disagio; era omofobo e razzista, non sopportava gli ebrei e maltrattava, con aperta ostilità, gli indios.

L’altro fratello, George (Jesse Plemons) si occupava invece  dei problemi amministrativi della proprietà: trattava con le banche, con  i fornitori. Era un uomo grasso, di poche parole e solitario, sia pure diversamente da quell’orso violento di Phil.

George, infatti, appariva timido e   mite, ma sapeva il fatto suo e negli affari mostrava fiuto e intelligenza. Vestiva con sobria eleganza per rendersi presentabile ai suoi interlocutori.

Si era innamorato e aveva segretamente sposato Rose Gordon (Kristen Dunst), una giovane vedova alla cui locanda era arrivato un giorno Phil con altri proprietari di ranch – omofobi, maschilisti e razzisti quanto lui – ferendone gravemente la sensibilità e deridendone il figlio Peter (Kodi Smit-McPhee).

George aveva visto la bella donna in lacrime, ne aveva compreso il dolore e, subito dopo il matrimonio, era rientrato nella casa – dove Phil lo attendeva – insieme a lei e a Peter.

Avrebbe avuto inizio, ora, la guerrra di Phil contro Rose, l’intrusa sgradita e contro quel damerino effeminato di Peter, che presto, però, avrebbe abbandonato la casa per riprendere al College gli studi universitari: voleva seguire le orme del padre, che era stato un bravo medico fino alla fine (precoce) dei suoi giorni.

 

I barbari in agguato

Si aggiravano, lungo i pascoli selvaggi delle grandi vallate, bande di indios, riottosi ad accettare la vita nelle riserve che il governo degli Stati Uniti alla fine dell’800 aveva istituito per compensarli delle perdite subite durante le guerre contro gli invasori bianchi che arrivavano dall’Est.

Nella pianura transitavano inoltre le carovane di ebrei nomadi, i gipsy che, avidi di guadagno, volevano rivendere agli stessi derubati proprietari, le pelli degli animali non sorvegliati che avevano catturato illecitamente e abilmente conciato e trasformato.

 

 

Queste presenze inquietanti irritavano sempre più Phil (che si adoperava, con la solita arroganza spropositata per farli rientrare nei ranghi previsti dalle ottuse leggi dell'epoca) e portavano nuove tensioni all'interno della casa in cui Rose viveva col figlio, ora tornato dal College per le vacanze estive. 

 

Credo, a questo punto, di aver detto quanto basta per evitare di parlare  degli sviluppi successivi del racconto, ovvero della parte centrale del film. 

Ogni ulteriore spoiler mi parrebbe inaccettabile in una pellicola che, ribaltando continuamente le attese degli spettatori che hanno attentamente seguìto, diventa un noir, in cui solo alla fine si potrà scoprire il nome di chi avrà la meglio nella guerra dei dispetti, dei rancori, degli avvicinamenti insidiosi, e nel quale solo alla fine, forse, si capirà chi sono davvero i fragili e i forti che hanno saputo resistere al "potere del cane", ovvero, secondo me, alla rabbia vendicativa che l’istinto suggerirebbe.

 

Film molto bello, superbamente interpretato, accompagnato dalla visione magnifica degli onnipresenti monti della Nuova Zelanda, che, a chi sa guardare, rivelano immagini evocative di inseguimenti e lotte, come aveva compreso l'altrettanto onnipresente Bronco Henry, lo spettro inquietante che si aggira lungo tutto il film.

 

 

 

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