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La violenza: quinto potere

Regia di Florestano Vancini vedi scheda film

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La recensione su La violenza: quinto potere

di lamettrie
10 stelle

Il miglior film sulla mafia che conosca (e ne ho visti diverse decine, tra i quali tanti sono di alto livello, quando non altissimo).

Vancini ci regala la summa di quello che serve per conoscere la mafia. In ordine di apparizione:

-       sfruttare la miseria; anzi, crearla, per costringere a non avere alternative. O si collabora con i delinquenti, o si è condannati alla disperazione. E tutto è studiato con straordinaria precisione e competenza. «Ti vanno 500 mila lire? Ne hai coraggio di ammazzare un uomo?» Il prezzo è basso, ma la povertà non lascia tale alternative. «È tutto preparato… ti procuro io arma e alibi». Il delitto commissionato da far fare ad altri è perfettamente organizzato. «Prima di ucciderlo (il futuro assassinato ha moglie e due figli, ndr), ci ho pensato a lungo, ma poi mi sono detto: Pure io devo vivere; e mezzo milione quando lo guadagno?» (Le citazioni di questa recensione sono spesso parafrasi, per motivi di spazio).

-       Il tradimento di patti criminosi non può essere lasciato impunito «(il futuro assassinato) ha voltato le spalle agli amici».

-       Gli analfabeti hanno la terza media, nonostante non sappiano né leggere né scrivere. «Mi serviva per vincere un concorso. La terza media l’ho avuta grazie a una raccomandazione. Non c’è niente di male a dire chi mi ha fatto la raccomandazione: Barresi…un amico (che poi è l’imputato maggiore, pieno di denaro, ndr)». Degna di nota è la disinvoltura di ammettere un reato, che stravolge la meritocrazia e contribuisce alla rovina della società.

-       Il prestanome. È analfabeta, ma figura come uno dei maggiori costruttori d’Italia: 1250 progetti firmati, 25mila appartamenti. Si finge malato, non appena viene messo alle strette e non può più negare la verità, così in tribunale può continuare a non rispondere.

-       Assoluzioni facili e incredibili. «Assolto per 12 omicidi. Ma sarebbero molti di più se si sapesse che fine hanno fatto oltre 50 persone scomparse. Quelli trovati in passato erano nei piloni di cemento…»

-       La menzogna più sfrontata e vergognosa. Si affermano e sottoscrivono con forza cose per nulla credibili, con spregio di ogni logica e probabilità, pur di negare l’evidenza.

-       Evasione fiscale. «Parlando di tasse, almeno l’80% delle persone qui dentro imbroglia lo stato», dice il ricchissimo Barresi, imputato come influentissimo capomafia, in tribunale, in mezzo alle diffusa risa non censurate da nessuno, neppure dal giudice.

-       La mafia controlla tutti i soldi e tutto il potere, leciti e non. Lo dice il pubblico ministero, un grande Enrico Maria Salerno. Questo è il nucleo di ogni criminalità organizzata.

-       Tutte le prove spariscono. Gli avvocati, che difendono consapevolmente fior di criminali, possono dire «ma che processo farsa è questo?», quando quella sparizione va proprio a favore dei loro ricchi clienti (i quali, la logica vuole, sono i maggior indiziati per tale sparizione, di cui i loro avvocati si lamentano)

-       Spariscono i memoriali veri. In compenso se ne fabbricano di falsi, in modo da equilibrare i primi, e da poter dire «è tutto uguale, non si capisce niente».

-       Il trasformismo. Quelli che da storici vincenti sono diventati dei perdenti, vogliono passare politicamente sul carro del vincitore, per poter continuare a gestire il potere.

-       L’inutilità dei gesti di coraggio e di onestà. «La morte di mio fratello è stata inutile…tutto inutile in Sicilia», dice uno straordinario Cucciolla, fratello di un sindaco apparentemente onesto, perciò ucciso.

-       Uccisioni di autorità in pieno paese. Infatti la diga, che il sindaco voleva fare «per opportunità sociali», poi non viene fatta (rovinava gli affari di un ricchissimo ingegnere accusato di mafia, Crupi).

-       Non si può capire facilmente chi ha ragione e torto. Tutti sembrano condizionati dai mafiosi.  Negli interessi criminali, a contrapporsi sono due fazioni moto probabilmente di alto spessore delinquenziale entrambe. Chissà se il sindaco voleva la diga davvero per motivazioni sociali. Rappresentanti di giustizia e istituzioni sembrano troppo vicini a una delle due fazioni, a seconda dei casi. Di profondamente limpido, ovvero lontano dai mafiosi, non appare pressoché nessuno, tra coloro che avevano responsabilità.

-       Pochissimi ricchi gestiscono una valanga di voti, la quota che serve per vincere, e quasi tutte le nomine pubbliche. Il capomafia Crupi può dire: «Ho fatto del bene a tantissime persone», nel distribuire posti di lavoro, privati e soprattutto pubblici.

-       Tutto il potere e la situazione economica e politica dipende solo dalla lotta fra cosche rivali ricchissime. Tutto il resto (l’autonomia dei politici scelti democraticamente dai cittadini…) è solo uno spettacolo di burattini, fatto passare però per vero.

-       L’uccisione di testimoni involontari di crimini. Viene ucciso anche un bambino, sotto gli occhi della madre. Questa, evidentemente disturbata mentalmente (e la si può capire) non ricorda nulla, in tribunale, ma il pubblico ministero può dire la verità: «lei ricorda benissimo, ma non può parlare…ha due figli…per non perdere anche quelli, sacrifica la giustizia di quello già morto».

-       La speranza di vita è la più bassa d’Italia, segno di miseria. «Qui c’è il tasso di natalità più alto, e il tasso di mortalità infantile più alto. Chi sopravvive emigra, per la disperazione… i migliori se ne vanno subito». Una terra condannata alla disperazione e alla misera dai suoi capi politici ed economici, tutti mafiosi.

-       Se si dice il vero contro i potenti criminali, si è nella miseria. L’insegnante Cucciolla, dopo aver deposto il vero, ha perso il lavoro nello stato, per via di accuse false sulla sua moralità (in realtà per aver deposto il vero).

-       L’autoattribuzione falsa di omicidi e crimini vari. Un superbo Ciccio Ingrassia si accusa di delitti non commessi: è ricattabile, deve salvare i figli che altrimenti sono minacciati di morte dai mafiosi, cui deve obbedire incondizionatamente. Infatti dice in tribunale: «Io sono una monnezza… Non posso parlare, se no la pagano i miei figli». Subito dopo arriva una lama, e muore per mezzo di quella. La versione ufficiale parla di suicidio.

-       La falsità costante e studiata delle deposizioni. Splendida la serrata giustapposizione tra le parole, da una parte, e dall’altra la verità dei fatti mostrata dalle immagini, che smentiscono sempre in modo clamoroso le menzogne asserite con passione.

-       I testimoni involontari sono costretti a negare il vero. Altrimenti muoiono. Quindi non vivono più bene, perché sanno che possono essere uccisi, in quanto testimoni di crimini reali. Il marito della Melato viene ucciso per aver assistito casualmente a un omicidio di mafia. Lei denuncia tutto questo, in modo straordinario in tribunale.

-       Gli orrori degli avvocati che mentono per difendere il loro ricco cliente (che si può permettere un valido avvocato solo perché, appunto, è ricco). Si nega la posizione di un testimone contro il loro cliente, che però non c’è più, e quindi non può più testimoniare (infatti è stato fatto ammazzare dal suo cliente per quel fine); inoltre la versione ufficiale è che non è morto, ma che solo è sparito (quindi non si può parlare di uccisione, ma si può romanzare una fuga, per motivi sentimentali e corna contro la moglie, la quale è vedova e denuncia che in quel caso quella è solo una montatura).

-       La corruzione dei testimoni. Cercano di mettere a tacere la moglie con la ragguardevole somma di 5 milioni. Lei può correttamente dire in tribunale alla giuria (il giudice la manda via come una pazza, ma lei dice la verità): «Siete dei burattini…vi comandano coi loro soldi…e dite di fare giustizia… Quanto vale la vita di un uomo?... Non ho nemmeno un cadavere per piangere» (infatti il marito è stato fatto sparire, proprio per evitare che si possa dire che era stato ucciso perché testimone scomodo).

-       La definizione di mafia solo come invenzione giornalistica e politica. Dice il gigante Moschin, avvocato: «che ci siano violenze, deprecabili, per costumi ancestrali, in Sicilia, è indubbio. Ma la mafia come organizzazione implacabile e segreta è un invenzione dei politici».

-       L’assunzione dei parenti di un testimone. A Ingrassia promettono, in carcere, che il figlio avrà un posto pubblico, oltre a tanti soldi alla sua famiglia. L’importante è che lui continui ad addossarsi colpe che non ha, e a non denunciare invece le colpe altrui che ha visto in prima persona.

-       L’etichettatura dei testimoni scomodi come malati di mente. Vacirca, interpretato da un eccellente Guido Leontini, a detta dell’avvocato della difesa Moschin «si è sempre solo sentito infelice…perchè era un miserabile …. Non aveva i soldi per togliersi la fame… per una donna…» Vacirca disprezza il padre non perché quello «era povero, ma perché non si era mai ribellato – dice lui stesso – Dignità è non dover sopportare ingiustizie…andare a testa alta…». Poi l’avvocato ricorda che lui è condannato a vivere nella violenza, perché l’ha vista in famiglia: è la violenza sessuale che suo padre fece contro sua sorella quando quella aveva 13 anni. Lui perde i sensi e delira, dando ragione a chi lo voleva dipingere come un testimone poco affidabile. In realtà è l’unico che aveva detto fino in fondo la verità.

-       Paga l’unico testimone che denuncia il vero (anche per cose che non ha fatto); gli altri no, almeno al momento. Il Vacirca di cui sopra si prende 30 anni di galera.

-       La mafia è violenza allo stato puro. Il pubblico ministero Salerno può definirla con questo memorabile discorso, in risposta a Moschin che diceva che violenza è soprattutto essere «disonesto, ribellarsi alle leggi»: «Violenza è negare lavoro; costringere all’analfabetismo; quando i più elementari diritti vanno elemosinati dai cosiddetti galantuomini, come se fossero dei favori; costringere  a votare per una partito che si odia, per dei candidati corrotti, asserviti ai padroni; far dire “sissignore” e nossignore” a comando». Alla giuria può dire: «Non dovete permettere che un individuo venga schiacciato da chi ha potere».

-       L’aiuto delle tradizionali autorità cattoliche alla mafia. Moschin, che difende con successo i mafiosi, può invocare a proprio sostegno la pastorale del cardinale Ruffini, che recita: «respingiamo assolutamente la campagna diffamatoria, creata ad arte per far credere falsamente la Sicilia come tutta infetta dalla mafia». Del resto, il film si conclude con il battesimo di un figlio del politico manovrato pienamente dalla mafia. I mafiosi presenti lì mostrano grande rispetto per la tradizione e l’autorità cattoliche.

-       Usare la divisa da poliziotto per depistare gli avversari. Così travestiti, i membri di un clan costringono gli avversari a occultare le armi, e in questo modo possono massacrali meglio. La cosa più agghiacciante è la disinvoltura con cui possono commettere assassini plurimi girando in inequivocabili sembianze da poliziotti.

-       L’insabbiamento. Per dei cavilli studiati in modo da non essere mai del tutto accertabili e punibili, il mandato di cattura contro sospettati ricchissimi ed eccellenti di mafia non viene di fatto eseguito.

-       L’elogio retorico da parte dello stato di una persona dello stato ucciso dalla mafia. In realtà elementi dello stato sono tra i mandanti. Un membro della relazione antimafia viene fatto uccidere dagli uomini di Crupi. Il potente luogotenente di Crupi, onorevole alla camera grazie ai voti del potente capo mafioso cui è totalmente sottomesso, ne legge il discorso funebre, incensandolo di elogi. Peccato che lui è uno dei vertici del gruppo che è mandante di quell’omicidio.

 

Detto della somma sceneggiatura, tra i pregi vanno citati: un cast irripetibile (Enrico Maria Salerno, Gastone Moschin, Riccardo Cuciolla, Aldo Giuffrè, Ciccio Ingrassia, Mario Adorf, Mariangela Melato, Georges Wilson, assieme a tanti caratteristi eccellenti); le musiche di Morricone; e soprattutto il soggetto: oggi ricorrono i 35 anni dall’assassinio, per mano della mafia, di Giuseppe Fava, dal cui dramma “La violenza “è tratto questo film. Un film peraltro breve; raramente poco più di un’ora e mezza può regalare tale intensità. Duole assai ricordare che non esiste ad oggi dvd di questo film, che non è proposto quasi mai (almeno su youtube c’è, per grande fortuna). Un film che è ignorato quasi completamente (ovviamente ignorato non per caso, dalla classe dirigente politica), nonostante l’altissimo valore, estetico e politico. Confezionarlo è un immenso merito di Vancini che, come già detto, firma qui il miglior film sulla mafia, a sommesso parere di chi scrive; come già aveva firmato il miglior film sul fascismo, ovvero “Il delitto Matteotti”. Una “doppietta” tanto esaltante quanto volutamente misconosciuta.

Fava è stato il più importante degli intellettuali impegnati contro la mafia, che ne ha fatto uno dei martiri più significativi della cultura seria, quella non disimpegnata. Quella Cultura che non ha cercato, puerilmente, di ritagliarsi con la ragione una falsa, e ben poco consistente, torre d’avorio lontana dai problemi reali.

 

 

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