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L'agguato

Regia di Rob Reiner vedi scheda film

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La recensione su L'agguato

di spopola
4 stelle

Sembra quasi impossibile considerare “L’agguato” come la riproposizione in immagini cinematografiche di un fatto realmente accaduto, tanto è conformista e pedissequo, rispettoso dei canoni e delle convenzioni, indiscutibilmente “politicamente corretto” e attento a non “disturbare” le coscienze e gli equilibri, da risultare persino banale (o anche fastidiosamente “irreale”) così profondamente inquadrato come è nella ovvia artificiosità accomodante e posticcia di quella “corrente” cinematografica da tempo di moda a Hollywood e dintorni, conciliante e consolatoria, solo epidermicamente “liberal” e progressista, che pretende di descrivere una società così civile e “incorruttibile” da essere stata capace, pur con sforzi non indifferenti, di produrre anticorpi sufficienti a “debellare” il male delle origini, riscattandosi dalle malvagità che allignavano alle radici di certi comportamenti anomali che si preferisce imputare comunque, più che al sistema, alle devianze aberranti di singole persone o “gruppi di potere” diventati solo all’apparenza in minoranza. D’accordo, Reiner non è un regista di eccezionale levatura e non potremmo chiedergli l’impossibile, ma pur nella sua corretta artigianalità, ha saputo comunque dare prove ben più consistenti e positive (basti pensare alle sospese atmosfere di quel viaggio alla riscoperta delle proprie paure infantili che ci fa intraprendere, nolenti o volenti, con l’incantato e doloroso “Stand by me” – probabilmente la sua opera più riuscita e compiuta – o anche, scendendo nei generi, a “Misery non deve morire”, pellicola assolutamente non consolatoria e inconciliabilmente “cattiva” e fuori dai consueti schemi nel disegnare anomalie e devianze, o a “Harry ti presento Sally”, scintillante commediola mai banale, dall’acido retrogusto corrosivo che va ben oltre le apparenze del semplice divertimento fine a se stesso) di questo scolorito melodramma giudiziario che vorrebbe focalizzare l’attenzione sul tema di un razzismo realisticamente concreto ma in massima parte superato, attribuito in massima parte alle vecchie generazioni in via di estinzione, e lo fa con una superficialità disarmante, dimenticandosi persino di “delineare” esattamente il “contorno” sempre decisivo se si vogliono rendere veramente credibili operazioni come questa, e propinandoci poi una conclusione così “prevedibilmente ovvia” (non tanto perché, trattandosi di un fatto reale, si sa già come è andata a finire, ma proprio per la “tipicizzazione” dei personaggi portata alle estreme conseguenze che in alcuni casi sfiora involontariamente persino la “macchietta”) senza analizzare fino in fondo tutte le implicazioni che stanno alla base “delle ragioni degli uni e degli altri”, come sarebbe necessario. Per carità, ne sono perfettamente cosciente e consapevole: non sempre è possibile rapportarsi alla “storia”e alle “origini” con la cattiveria analitica che definisce le qualità decisamente non assolutorie per esempio di uno Spike Lee (che è parte in causa, e sa meglio di molti altri di che cosa si sta parlando e a che punto è davvero arrivata la situazione, senza che sia possibile farsi eccessive illusioni) ma ci sono comunque vie intermedie meno convenzionali che permetterebbero per lo meno di far percepire il tono della “sincerità partecipata”, della “condivisione della causa” senza la falsità del racconto a tesi, e consentirebbero di scardinare la sensazione di trovarci di fronte a una calcolata esercitazione accademica, quasi un ennesimo, tardivo e patetico tentativo di rimuovere ancestrali sensi di colpa non ancora metabolizzati pienamente, “candeggiandosi” la coscienza con un buonismo di facciata che non trova ahimè riscontro nella realtà comportamentale di tutti i giorni (non solo di “quella” società, ma del mondo intero in cui ci troviamo a vivere) permeata da una intolleranza discriminante di ritorno sempre più dilagante e così sottilmente camuffata, da risultare ancor più spaventosa e perversa di quelle plateali esibizioni che rappresentano le “anomalie” del passato e che qui vengono raccontate e finalmente “condannate”. Siamo insomma dalle parti (o sarebbe più appropriato dire che ci fermiamo molto prima e con una significativa minore dose di partecipazione non solo emotiva ma anche “emozionale”) di “Mississipi Burnig”, un’altra opera piuttosto “furbetta” che si ammanta di “illuminismo” critico senza scavare con la dovuta profondità nelle ferite per far uscire dalla piaga putrescente tutto il “veleno” e il pus maleodorante che la sta ancora infestando e che non sarà mai possibile risanare con una semplice “riverniciatura” di facciata senza aver sradicato prima le radici della devianza. Del resto se davvero la “maggioranza silenziosa” di quel popolo e di quella nazione fosse effettivamente arrivata a un grado così elevato di “consapevolezza ragionata” non solo non saremmo arrivati al punto in cui siamo, né dovremmo registrare giornalmente fatti che confermano quanto ancora il percorso sia lungo e accidentato, ma non avremmo nemmeno, in coloro che sono “riusciti a emergere dal ghetto” comportamenti così pericolosamente “imitativi” di quelli vessatori che li hanno perseguitati in passato, da diventare nella loro volontà di “emulazione”, cloni ancor più feroci e incomprensibili degli originali, né ad appena due anni di distanza avremmo assistito al boicottaggio sistematico di una pellicola “disturbante e profonda”(quella davvero anomala e non consolatoria) come “Beloved” di Demme, avversata probabilmente proprio perché davvero riusciva a mette il dito nella piaga scoprendo l’anima del problema e costringeva per questo, pur parlando di fatti molto più “antichi”, a compiere un doloroso percorso di analisi all’interno della propria reazionarietà congenita sempre difficile da affrontare. In questo “Ghosts from the Past” (ancora una volta di gran lunga migliore il titolo in originale) ci sono invece solo “buone intenzioni” non sorrette da una sufficiente capacità di dare “forza drammatica” ai fatti raccontati per farli uscire dalla convenzione (e i personaggi stessi sono manicheisticamente “suddivisi” in schieramenti come da copione, con tutti i dubbi, le frustrazioni, le titubanze e “i colpi di scena” che contrappuntano il percorso e gli incidenti delle prevedibili “tappe” di prammatica ormai da tempo codificate, ma senza una definizione “effettivamente pregante” delle psicologie non solo personali, ma anche delle “comunità contrapposte” che si affrontato e si scocntrano). A corrente alternata anche la resa degli interpreti, quasi tutti afflitti dalla monolitica consistenza a senso unico del ruolo loro assegnato. Qualcuno se la cava meglio di altri (e non solo per capacità intrinseche o per il consumato mestiere con il quale riesce “nonostante tutto” a fornire sfumature più credibilmente accettabili alla propria caratterizzazione) come Whoopi Goldberg o William H. Macy e Craig T. Nelson. Altri risultano invece decisamente “abbandonati a se stessi”. Singolarmente però a mio avviso la palma negativa non spetta questa volta ad Alec Baldwin (e sarà sicuramente un parere che verrà sicuramente contraddetto da più parti) attore di indiscutibile inespressività congenita, che qui mi sembra riesca a “cavarsela” meglio che in altre circostanze (non che faccia molto, ma quell’aria “da pesce lesso” come da più parti è stata definita la sua “resa”, riesce quasi a dare un “segno” distintivo di ingenua e caparbia realtà al suo personaggio così manierato da risultare persino patetico) ma bensì a James Wood - e non per demerito particolare dell’attore, sempre professionalmente inappuntabile e che fa l’impossibile per tentare di “arrampicarsi sugli specchi” nonostante tutto – ma per l’impostazione “indecente” che la regia regala al suo “carattere unidimensionale”, facendone un “cattivo” iconografico da manuale, a partire dalle protesi invecchianti così posticciamente “invasive” da risultare grottescamente “fasulle” e “diabolicamente” caricaturali: lui è l’incarnazione del male, “riconoscibile e assoluta” e l’attore non può che adeguarsi al “disegno” fra strabuzzamenti d’occhi e digrignamenti di denti che portano la sua resa espressiva ad una esasperazione grandguignolesca che rasenta il ridicolo, in attesa che arrivi la (inevitabile) “giusta” catartica punizione finale che rasserenerà finalmente le coscienze e farà trionfare “i buoni di cuore” e i loro affiliati sempre più numerosi ed esultanti.

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