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Il colpevole

Regia di Gustav Möller vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il colpevole

di omero sala
7 stelle

 

 

locandina

Il colpevole (2017): locandina

 

 

Prima di vedere il film danese ho incrociato il remake americano di Antoine Fuqua del 2020, intitolato The Guilty.

E dico subito che la visione ravvicinata dei due film è stata utilissima per un raffronto che vede fragorosamente bocciato il rifacimento americano.

Ambedue i film hanno il merito di sviluppare un thriller tesissimo e avvincente rispettando i due canoni drammaturgici della tragedia greca che sono l’unità di luogo e l’unità di tempo: sono cioè girati per intero in un call cente della polizia per le chiamate d’emergenza (tipo il nostro 112) e durano esattamente gli stessi minuti in cui si svolge l’azione (un’ora e mezza è il tempo in cui si sviluppano e si concludono i fatti narrati; un’ora e mezza è la lunghezza del film). 

Questi espedienti rendono il racconto stringente e danno al film una potenza oppressiva non indifferente, trasmettendo allo spettatore la stessa incalzante tensione che pesa sul protagonista come una molla che si tende, una spirale che stringe, un vento che toglie il respiro.

Nessuno dei due registi, per fortuna, ricorre all’espediente accademico del piano sequenza, che - utilizzato da geni come Hitchcock (vedi Nodo alla gola del 1948, in cui tutto il film è costituito da un’unica sequenza ininterrotta, senza tagli, senza montaggi, senza cambi di scena) o Angelopoulos e Antonioni - tenta sempre gli epigoni ambiziosi.

 

In ambedue i film si racconta la stessa storia.

Asger Holm (Jakob Cedergren) è un agente danese che di notte, a fine turno, riceve la telefonata concitata di una donna che piange e chiede confusamente aiuto. Convinto che all’altro capo del filo ci sia la vittima di un rapimento, il poliziotto resta incollato al telefono. E per risolvere il problema mobilita la stradale alla ricerca del furgone da cui arriva la chiamata; manda dei colleghi al suo indirizzo per cercare indizi; controlla archivi; indaga sui precedenti del marito che in passato è stato incriminato per violenze; dispone perquisizioni; ordina inseguimenti e irruzioni; telefona ai bambini della coppia lasciati a casa da soli.

Nel film americano l’agente si chiama Joe Baylor (Jake Gyllenhaal) e l’azione si svolge a Los Angeles invece che a Copenaghen.

 

In tutti e due i film l’agente è confinato al centralino perché sospeso per un’indagine interna della polizia e in attesa di un processo per aver commesso un omicidio in servizio. 

Il colpevole del titolo del film è lui, il poliziotto che risponde sbrigativamente alle chiamate, non vede l’ora di finire il turno e di chiudere la lunga giornata che precede il suo processo, non nasconde il nervosismo e l’insofferenza (e anche poca empatia, e una certa intolleranza per chi chiede aiuto). Il film non si spiega senza questo senso di colpa, perché è anche per questo che l’invocazione di aiuto di una donna disperata ridesta in lui una confusa volontà di riscatto, una spinta decisa a cercare un equilibrio perduto, una caparbia determinazione a ritrovare una solidità compromessa. E cerca soprattutto per se stesso (e dentro se stesso, non nel processo che dovrà affrontare) una forma di riscatto, un risarcimento, una redenzione.

 

La differenza fra i due film è presto detta: 

  • nel film danese la recitazione è sobria; in quello americano Gyllenhaal si abbandona a esibizionismi isterici sempre un po’ sopra le righe (chissà perché gli attori meglio pagati si sentono in dovere di istrioneggiare …); 
  • nel film danese i primi piani sul poliziotto creano una tensione claustrofobica che in quello americano si stempera con campi medi che allargano lo sguardo sui lividi interno-notte della centrale di polizia;  
  • il film danese ha il merito di aver dettato la sceneggiatura a quello americano che la ricalca pedissequamente e si discosta dal modello originale solo per poche variazioni di trama, peraltro peggiorative (nel film danese muore un bambino che in quello americano sopravvive; nel film danese il poliziotto va verso la probabile assoluzione per l’omicidio commesso in servizio, in quello americano si profila una condanna espiativa; ma la versione americana è forse dovuta in larga misura al clima che si respirava negli States dopo l’omicidio di George Floyd il 25 maggio 2020 da parte del poliziotto Derek Chauvin, licenziato dalla polizia di Minneapolis e condannato a 22 anni di carcere anche per le forti pressioni dell’opinione pubblica mondiale e i disordini che avevano incendiato la protesta dei democratici e delle comunità afro);
  • il film danese è minimalista: nei dialoghi e nei pesanti silenzi, nelle inquadrature congelate e raggelanti, nell’avara espressione dei sentimenti, nella sobrietà nella ricerca di effetti; quello americano si lascia sfuggire alcune superfluità gratuite.

 

L’idea alla base dei due film non è proprio originalissima: l’americano Sidney Pollack nel 1965 aveva raccontato qualcosa di simile (un film tutto al telefono) nel suo La vita corre sul filo

Ma il film danese ha una sua genuina originalità e mantiene una compattezza davvero straordinaria. 

Qui sul filo corrono voci straziate dalla paura e voci amorfe di centralinisti, raggelanti singhiozzi soffocati, rumori di traffico, invocazioni e silenzi pesantissimi; fruscìo dei microfoni e suoni di cornette deposte e di comunicazioni bruscamente interrotte. 

Sul filo corrono la paura e le speranze, l’affanno e il panico, la volontà di risolvere problemi e l’impotenza, l’empatia e i demoni della violenza o dei sensi di colpa.  

E tutte queste cose, dando potenza alla trama, raccontano in maniera nitida sia la confusa e angosciata sofferenza degli uomini (individui), sia i disordini assurdi del mondo (società) che ne sono la conseguenza.

 

Jakob Cedergren

Il colpevole (2017): Jakob Cedergren

 

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