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Jungle Fever

Regia di Spike Lee vedi scheda film

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Enrique

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La recensione su Jungle Fever

di Enrique
6 stelle

Una storia di ordinario razzismo “bidirezionale” (bianchi vs. neri e viceversa) assiste impotente ad un’altra storia (se possibile ancora più tragica) di una società che precipita sempre più in basso, portandosi seco, in fondo al precipizio etico, morale, esistenziale e quant’altro, i propri figli prediletti. E i loro padri devoti. E tutti quanti, con loro, appassionatamente.
Un improvvisato esperimento culturale - diciamo un “workshop” interrazziale a base di pasti frugali, teneri abbracci e (immancabilmente) sesso (un vero pallino del buon vecchio Spike) - offre l’occasione a Lee per fargli portare alla luce quel mai sopito risentimento reciproco che pare irrimediabilmente serpeggiare nella popolazione newyorkese (indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza), storicamente assai multietnica, eppure così divisa (e, dunque, fragile).
Una scusa credibile, ma futile, che non fa altro che distogliere l’attenzione dai veri, devastanti problemi che, prima di “sporcare” l’habitat urbano, attanagliano e degradano, anzitutto, la dignità umana.
La disgregazione del più basilare nucleo sociale: la famiglia.
La profonda ignoranza delle masse che non esercitano i propri diritti con il voto o facendo appello al buon senso o a principi comuni; che si chiudono a riccio nel proprio piccolo mondo e scaricano sugli altri la responsabilità dei propri fallimenti.
Il vortice nefasto della (tossico)dipendenza che, piano piano, trasforma sorrisi caricaturali in smorfie di rancore; che annichila il rispetto per sé e per gli altri; che risucchia la vita e, con essa, quanto di buono rimane in questo mondo.
Quando si è in preda ad una pericolosa “jungle fever”, quale modo migliore per reagire esiste di un bell’urlo liberatorio?
Poco lontano dall’acclamato “Fa’ la cosa giusta”, il carissimo Lee allestisce un’opera altrettanto ambiziosa. In parte riuscita (efficace come sempre lo stile dinoccolato” da cineasta di quartiere di periferia che, però, con finta indifferenza, realizza una denuncia sociale di forte impatto quando immortala il volto emaciato del grande L.Jackson che implora pietà), in parte no (talune situazioni e taluni dialoghi si dimostrano, ancora una volta, o sopra le righe o, viceversa, poco incisivi).

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