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Tutti i Vermeer a New York

Regia di Jon Jost vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Tutti i Vermeer a New York

di Inside man
10 stelle

Film stupendo e profetico praticamente scomparso dalla circolazione come il suo regista, Jon Jost, cineasta indipendente di un certo nome che all'epoca stava per compiere il grande salto nel cinema d’autore “mainstream”.

Le varie vicissitudini seguite, tra cui una sfortunata esperienza italiana poi trasposta in una pellicola semi-autobiografica, contribuirono a stroncare una carriera decisamente promettente. Tornato a dirigere documentari e film underground, manco a dirlo mai giunti nel nostro paese, oggi non ci è dato sapere se il suo grande talento abbia partorito altri lavori importanti, eppure nel 1990, con Tutti i Vermeer a New York, ci regalò un’opera di sopraffina originalità stilistica che lo impose all’attenzione della critica internazionale.

 

La storia di un amore sbocciato in alcuni emblematici luoghi della grande mela (mai più ripresi con identico fascino metafisico) si compenetra alla raffigurazione di una società tardo-consumistica già allo sbando, portando il personaggio principale, un broker di borsa, a interagire in altrettanto simbolici spazi, ora stranianti e schizofrenici, della metropoli tempio (dalle colonne d’argilla) della finanza mondiale.

In anticipo sui tempi di almeno vent’anni al pari del Wall Street di Oliver Stone, rispetto a quest’ultimo Jost dimostra di possedere maggiori capacità di controllo della materia e soprattutto un sovrastante spessore poetico-stilistico nel mettere in scena quest’inedita epitome della crisi esistenziale contemporanea (di relazioni, ideali, valori) canalizzata nelle atmosfere di una città ora implacabilmente nichilista ora di pregnante bellezza (gli ambienti minimal newyorkesi sono tra i veri protagonisti della pellicola).

 

E’ proprio sul doppio binario nascita/morte della vicenda amorosa, fasti/declino di una cultura e della supremazia (socio-economico) occidentale, che si sviluppa una magistrale simbiosi fra la New York culla di un virile e antiretorico romanticismo a misura d’uomo (da storico membro dell’underground Jost è completamente estraneo al ritorno del sentimentalismo di quegli anni), e la metropoli opprimente votata al mito autodistruttivo del successo (e del potere) finanziario.

Temi essenziali di un film dove è il mirabile gioco d’atmosfere intessuto dal cineasta a far emergere narrato e sottotesti, in una parola a incaricarsi del racconto grazie a un’astrazione linguistica che coniuga l’onnipresente lezione di Antonioni a uno dei primissimi recuperi impressionisti del periodo.

Il taglio singolare dell’autore, dal punto di vista formale, sta quindi nel distanziare diegeticamente i personaggi dal ruolo di protagonisti, inserendo le loro vicende in un clima perennemente sospeso, in cui la funzione di stimolo vitale del loro brief encounter è demandata nient’altro che ai movimenti lenti e sinuosi della macchina da presa, all’alone magico dei capolavori del pittore di Delft, alla suggestione delle architetture newyorkesi (su tutte le splendide sale del Metropolitan Museum).

 

Si diceva della lungimiranza di una rappresentazione del mondo logorante e spietato di Wall Street, visto attraverso gli occhi di un agente di cambio (connotato in maniera assai distante dalle forzature didascaliche del patinato Bud/Charlie Sheen di Stone) già pienamente immerso in quelle dinamiche auto-cannibalizzanti in procinto di tracimare dai mercati azionari alla vita quotidiana di tutti noi.

Il perverso gioco al massacro viene spezzato brevemente da una passione limpida e intensa: è l’ultimo tangibile appiglio cui aggrapparsi prima che un’emorragia interna lo faccia svanire repentinamente, così come si era materializzato, davanti a un Vermeer.

La parte conclusiva con la significativa fine del broker (buona l’interpretazione di Stephen Lack), sembra un’eccellente rivisitazione del mancato incontro fra Sharif e la Christie nel Dr. Zivago di Lean, e nella sua dolorosa e disarmante lievità è analogamente meritevole di entrare fra le indelebili sequenze cinematografiche improntate al connubio "amore e morte".

 

Strano e forse inconscio destino ha finito per legare la parabola artistica di Jost a quella di un maestro olandese rimasto per quasi 200 anni un perfetto sconosciuto a dispetto di un'opera pittorica che aveva sfiorato vette divine.

Torneremo mai ad accorgerci di quest’incantevole film?

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