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L'uomo dell'A2-P16 - Venezia 79
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Tornare a vedere film attorno a tanta gente, immersi nel buio e letteralmente circondati da tanti sguardi attenti e assorti, è una vera novità in questo 2022. Io me l’ero scordato. Tanto più a Venezia, dove l’esperienza in sala si ripete continuamente, e ci si scopre disabituati a ritrovarsi costretti a mettersi accanto a sconosciuti, a decidere se il bracciolo in comune si possa utilizzare o meno, quale sua frazione sia utilizzabile e quale no, quando potrebbe essere che l’altra persona sposti il braccio per renderlo completamente inservibile, e nel caso, dove andare a piazzare il proprio braccio laddove il bracciolo mancasse di spazio. Vedere 57 film in 12 giorni a ritmi forsennati con sale spesso piene, o almeno con la (s)fortuna di essere completamente assediati da altri spettatori – per esempio incastrati in mezzo alla fila – comporta che si comincino a prendere delle misure che normalmente non si prenderebbero. Che forse tradiscano un po’ la mia ansia e la mia ipercinesi? Sicuramente sì, ma tant’è: non so mai se posso distendermi un po’ e poggiare le tibie sul sedile davanti, devo capire se c’è qualcuno seduto davanti (a sua volta coricato, senza cocuzzolo sporgente) che potrei disturbare; e la mia insulsa cura a questo riguardo non è sempre corrisposta dallo spettatore dietro di me, che può anche decidere, per quel che ne so io, di inchiodare un quadro sul mio schienale o di iniettarvi delle scariche elettriche, o di regalarmi gratis un’esperienza 4D (un po’ meno gradita se il film è un film filippino silenzioso di 3 ore e non propriamente un blockbuster pieno di incidenti e esplosioni). Con 5 o 6 film al giorno capisci anche il ritmo con cui il tuo vicino di sedile può decidere di cambiare posizione e riorganizzare la distribuzione dei suoi arti motori, o del suo busto, sulla poltrona. E capisci che spesso dipende dal film: se il film è un fiume in piena ininterrotto, quasi senza cesure, una cascata (!) di immagini legate da artifizi di raccordo sempre diversi, come è il caso di “Blonde” di Andrew Dominik (o l’ultima strabiliante ora di “Copenhagen Cowboy” di Nicolas Winding Refn), allora posso star certo che intorno a me regnerà l’immobilità assoluta, uno stato di ipnosi collettiva. Se il film è invece una lista segmentata di scene, di dialoghi, di tagli netti, di ellissi e di passaggi scenografici, allora dipenderà dal ritmo del film cosa succederà dell’immobilità del mio sedile. O anche della mia immobilità, e quindi della pazienza di chi è vicino a me.

È stata un’esperienza all’ultimo festival di Locarno a darmi l’idea che il ritmo di un film decide di un ritmo fisico dello spettatore: impone un respiro, o un movimento, o un’immobilità, o un tremolio. Guardare “Nuit obscure” di Sylvain George, in cui il montaggio va letteralmente al ritmo del respiro, se non in rari frangenti asfittici o in apnea, mi ha convinto che i film sono innanzitutto ginnastica fisioterapeutica, o trappole nervose – un braccio che si addormenta, una schiena che scrocchia, una caviglia tenuta troppo a lungo in una posizione e poi dolorante quando la si sblocca. “Nuit obscure” aveva la grande idea di rendere chiara questa condizione di simbiosi fisica che c’è fra lo spettatore e il film. La si potrebbe leggere come coercizione parassitica – il film ci intrappola in una ragnatela, e il ragno-regista ci fa rotolare come vuole lui – o immersione percettiva – il film ci invita in un organismo e decidiamo di sincronizzarci con le sue pulsazioni linfatiche –, è un po’ come vedere se un bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto. Forse dipende anche dal film, se il film insomma imponga o accolga. O, come nei capolavori, se non faccia entrambe le cose, o non renda chiaro cosa stia facendo.

Un film come “Love Life” di Koji Fukada – che è forse tra le poche esperienze mizoguchiane possibili nel cinema di oggi, con questo scandaglio analitico del ruolo drammatico di un personaggio secondo la mutua posizione rispetto alla camera e rispetto agli altri personaggi – non si sa davvero se imponga il suo dramma o se domandi delicatamente allo spettatore di penetrarvi. È lo stesso limbo dell’idea teorica e concettuale dissimulata come scelta di pura emozione: dove sta lo spettatore rispetto al film? Non solo mentalmente, ma anche fisicamente? Lo spettatore sta dove sta la camera, o sta nell’etere della sala/della sua stanza? Il film sta solo nel suo riquadro o sta anche fuori? Esiste l’aura di un prodotto tecnicamente riproducibile?

Se non so rispondere a queste domande, so invece rispondere dell’esperienza in sala quando ho visto “Love Life”. Ero circondato da una sala immobile, tesa nel ritmo dilatato del film. Però anche qui sta un paradosso irrisolvibile: se è il tuo “io” ad essere ipnotizzato da un film, non è possibile che a causa di ciò il mondo intorno a te scompaia? E il suo grado di “scomparsa” è proporzionale alla qualità del film, o alla qualità dell’esperienza? Può essere che le tue impressioni sulla posizione del braccio o della schiena siano presenti solo quando il film sta altrove rispetto alla tua testa? Ancora una volta, dove sta lo spettatore?

Sono troppe domande, mi rendo conto. Tutte splendidamente inutili. Però l’esperienza in una sala è davvero tanto variegata e potenziale di mille possibilità. L’aneddoto più curioso al riguardo, in questo 79esimo festival di Venezia (il mio nono di seguito), è certamente quello della mia visione di “The Banshees of Inisherin” di Martin McDonagh, visto in Palabiennale – tra gli accreditati chiamato simpaticamente Palabestiame per criteri di accesso alla sala e scomodità dei posti – nel punto più avanzato e centrale possibile, l’A1-P16, prima fila vicino al corridoio di separazione simmetrica della platea. Dietro di me trovo già seduto lui, l’uomo dell’A2-P16, che chiacchiera con una persona e nel trambusto non capisco se in italiano o in inglese. Capisco che, che piaccia o meno a Martin McDonagh, l’uomo dell’A2-P16 sarà parte integrante del suo film e della sua sceneggiatura. Continua a sussurrare a film iniziato, lanciandosi frasette isteriche con qualche vicino della fila dietro di lui, e io che sono all’inizio di un film di cui mi frega ben poco (a causa dell’insipienza di altri film del suo regista) mi comincio a chiedere se dipenda da questo interesse calante la mia sensibilità rispetto alle attività dell’uomo dell’A2-P16. Continuo a seguire il film mentre l’uomo dell’A2-P16 decide di coricarsi a tal punto da incastrare la testa nell’incavo più basso del sedile, dove normalmente insomma sta il coccige, per essere eufemistici: mi chiedo come faccia a vederci vista la mia presenza davanti a lui, ma soprattutto dove a quel punto potrà mettere le gambe. Un uomo smontabile le sostituirebbe al busto facendo uno scambio: al posto dei piedi il bacino e poi a partire dalla testa i genitali e le cosce, su via verso due piedini a sporgere in alto. Ma l’uomo dell’A2-P16 non è un uomo smontabile e le gambe vanno evidentemente a finire sul mio schienale. Il sedile del Palabiennale, è bene specificarlo, non è propriamente la poltrona resistente della Sala Darsena o la seggiola alta della Sala Perla; è una sediolina scrausa sottile come un foglio, irrigidita da degli elementi metallici di giunzione ma sostanzialmente un cartone duro. Ne deriva che due tibie poggiate su uno schienale comportino davvero una deformazione di quel cartone, forse addirittura della schiena di chi ci è seduto, su quel cartone. E questo è solo l’inizio.

Mi accorgo che il film di McDonagh non è brutto come temevo. Non ha una regia e questo mi dispiace, visivamente è più inesistente che non wilderianamente invisibile (campi controcampi continui, semisoggettive, panoramiche di droni sui fiordi dell’isola di Inisherin), però è scritto come Dio comanda e parte da delle premesse sciocche e quasi triviali per poi prendere delle pieghe di una cupezza insostenibile. Però la mia sensibilità rispetto alle imprese contorsionistiche dell’uomo dell’A2-P16 non si riduce, e anzi è amplificata. Non so per quale combinazione di testa, busto, braccia e bacino, l’uomo dell’A2-P16 passa dalle tibie ai piedi come parte del corpo prescelta da poggiare sul mio schienale. E si muove, si muove un sacco, e si muove completamente fuori dal ritmo del film, che è un ritmo molto schematico e secco, senza transizioni né flussi. Io stesso mi muovo quando nel film cambia scena. Lui no, al cambio scena è immobile, e invece nel clou drammatico di un dialogo si lancia in un’impresa acrobatica. Ora, io sono una persona che meno ha a che fare con degli sconosciuti meglio sta, per cui mi accollo l’esperienza, domandandomi che differenza vera ci sia fra lo scemo del villaggio interpretato da Barry Keoghan nel film e l’uomo dell’A2-P16. Mi limito davvero a muovere leggermente il collo, a lanciare occhiate sulla mia spalla o alla sacca del festival appesa al mio bracciolo, per cercare di lasciare intendere un leggero fastidio, ma non vado oltre. Sento intanto però, con crescente suspense, che i piedi dell’uomo dell’A2-P16 stanno scalando il mio schienale lentamente, sempre più alti ad ogni cambio di organizzazione anatomica, come gli alpinisti esaltati di “Grido di pietra” di Werner Herzog. E mentre Brendan Gleeson comincia a tagliarsi le dita nel film, la parte superiore della suola delle scarpe dell’uomo dell’A2-P16 raggiungono la mia schiena sopra lo schienale, e la mia maglietta. A quel punto mi giro, e faccio una faccia contrariata. Sussurro un “Sorry?”, ma l’uomo dell’A2-P16 – di cui finalmente vedo il volto basito – non credo si sia spostato perché ha capito: si è spostato perché la forma delle mie scapole mentre sto girato aveva smesso di essere comoda per le sue piante dei piedi. Mi rigiro, dispiaciuto che l’evento avesse avuto luogo nel cuore di un dialogo molto brillante e teso: ma è quello che rende l’uomo dell’A2-P16 così speciale, muoversi mentre c’è qualcosa nel film che richiede attenzione, e star fermo quando puoi anche perderti un’inquadratura.

Quest’evento drammatico non si ripete più, o si ripete solo in altre forme: i piedi del nostro antagonista sul bracciolo vicino al mio gomito destro, i piedi sulla mia sacca appesa al bracciolo.. i piedi di questo signore mi sono stati più attaccati delle api del giardino del village del casinò quando ho azzardato degli spaghetti con le vongole presi al self service. Mi hanno esplorato, annusato, percorso per tutti i millimetri quadrati che potevano percorrere. Ho avuto sincero terrore di non sentirmeli sui capelli, perché ho i ricci e i ricci ammortizzano. E questi movimenti erano sempre fuori ritmo, sempre al momento sbagliato, sempre ad ogni step in più che mi convincevano che “The Banshees of Inisherin” fosse proprio un gran bel film.

Ai titoli di coda l’uomo dell’A2-P16 è il primo ad alzarsi. Batte addirittura me che sono una saetta e me ne voglio sempre andare subito. Lo vedo finalmente in piedi e di spalle, che scappa impaurito. È un ometto basso, coi ricci anche lui, e cammina un po’ ondeggiando ma sveltissimo. Non so se voleva evitare un mio commento finale – che non nascondo di essermi preparato fra una battuta e un’altra di Colin Farrell – o se era troppo arrabbiato per un film che lo aveva indignato, ma è così che il mio rapporto fisico indesiderato con l’uomo dell’A2-P16 si è concluso. Quell’uomo è stata la rottura del ritmo più squinternata che abbia mai vissuto in sala. Se esiste un ritmo del film ed è un ritmo che una sala può condividere – e basta osservare le persone sedute al cinema: in certi momenti del film tutti si muovono all’unisono – quell’uomo era l’essere più inadatto all’esperienza cinematografica. Dopodiché ognuno la vive come vuole: può trovare piacevole indursi questo strazio indicibile delle articolazioni, per punirsi di aver scelto proprio quel film; o può trovare piacevole in generale muoversi in momenti assurdi, perché immagino che ognuno viva in modo diverso la suspense in un film. E io forse credo troppo nell’utopia dell’organismo-platea, che sia un organismo che entri in simbiosi o in contrasto netto con un film. Queste forse sono solo le ossessioni e i desideri di uno spettatore fuori dalla realtà di un mondo tutto diverso. Ma l’uomo dell’A2-P16 mi ha insegnato che al cinema si può vivere un’esperienza anarchica e fuori misura, rivendicando la propria individualità alla faccia dell’igiene altrui, e forse gliene sono grato perché non si smette mai di imparare, e in quell’etere extra-filmico chiamato “sala cinematografica” il regno del possibile è anche più cruento di quello che si può vedere sullo schermo. Se penso al sottobosco di una platea, con una prospettiva preferenziale di tutti i piedi degli spettatori – quantomeno di quelli non scomponibili – penso per esempio a un luogo orribile di umori bassi e nauseabondi, una selva tropicale che è sotto di noi ma non la vediamo, e ci sostiene durante la visione collettiva. Se ci penso, capisco che è un incubo. C’è solo da augurarsi che sia un sottobosco omogeneo: tutti i piedi a terra, o quantomeno bassi, e nessun vuoto lasciato da altri uomini dell’A2-P16, che potrebbero decidere che la tua nuca sia terreno calpestabile. Se l’uomo è il modo in cui si siede in sala, penso che solo Shinya Tsukamoto potrebbe fare un film sulla vita di questo mio eterno anti-eroe, che crea davvero un modello umano nuovo e totalmente cinefilo. Ho deciso di battezzarlo l’ “uomo dell’A2-P16”, e ci ricorda che la sala fa anche un po’ schifo.

 

Venezia è finita. Lascio un pagellone, i miei premi personali, qualche recensione sparsa per il sito (per di più il concorso principale), un’informativa sulla media voti senza i classici restaurati di 5,27 su 10 (5,46 senza considerare i cortometraggi, ché il corto non è propriamente il mio formato preferito) e un saluto, ci auguriamo, fino a Venezia 80. Che il nuovo anno porti tanti bei film per inaugurare il prossimo capodanno cinefilo italiano: intanto vediamo che succede in questo.

 

CONCORSO

Tár (Field)8/10

Love Life (Fukada) 7.5/10

Un couple (Wiseman) 7/10

Blonde (Dominik) 7/10

All the Beauty and the Bloodshed (Poitras) 7/10

Athena (Gavras) 7/10

The Banshees of Inisherin (McDonagh) 7/10

No Bears (Panahi) 6.5/10

The Whale (Aronofsky) 6.5/10

Saint-Omer (Diop) 6.5/10

Il signore delle formiche (Amelio) 6/10

The Eternal Daughter (Hogg) 5.5/10

Bones and All (Guadagnino) 5/10

Monica (Pallaoro) 5/10

White Noise (Baumbach) 5/10

Les enfants des autres (Zlotowski) 5/10

Argentina, 1985 (Mitre) 4.5/10

L’immensità (Crialese) 4/10

Beyond the Wall (Jalilvand) 4/10

Les miens (Zem) 3/10

Chiara (Nicchiarelli) 3/10

The Son (Zeller) 2.5/10

Bardo (Inarritu) 2.5/10

 

FUORI CONCORSO

Gli ultimi giorni dell’umanità (Ghezzi) 8/10

Copenhagen Cowboy (Refn) 8/10

When the Waves Are Gone (Diaz) 7.5/10

Master Gardener (Schrader) 7/10

Riget - Exodus (von Trier) 6.5/10

Music for Black Pigeons (Leth, Koefoed)6.5/10

The Kiev Trial (Loznitsa) 6/10

Don’t Worry Darling (Wilde) 4.5/10

Pearl (West) 4/10

Siccità (Virzì) 4/10

Call of God (Kim) 3/10

The Hunging Sun (Carrozzini) 3/10

 

 

ORIZZONTI

Trenque Lauquen (Citarella) 9/10

La syndicaliste (Salomé) 6.5/10

The Happiest Man in the World (Mitevska) 6.5/10

Aru Otoko (Ishikawa) 5/10

 

ORIZZONTI CORTI

A guerra finita (Massi) 6/10

 

GdA

Bentu (Mereu) 6.5/10

Stonewalling (Ji, Otsuka) 4.5/10

Padre Pio (Ferrara) 4/10

Blue Jean (Oakley) 4/10

 

GdA (Fuori Concorso)

Marcia su Roma (Cousins) 6.5/10

The Listener (Buscemi) 4.5/10

 

SiC

Skin Deep (Schaad) 6/10

Eismayer (Wagner) 6/10

Malikates (Benkiran) 5/10

Anhell69 (Montoya) 4/10

Dogborn (Carbonell) 3/10

 

SIC@SIC

Reginetta (Russotto) 4/10

Resti (Fadiga) 3/10

Puiet (Fabbro, Stahl) 3/10

Happy Birthday (Ferraro) 3/10

Nostos (Zingarelli) 2/10

 

DOC SUL CINEMA

Godard seul le cinéma (Leuthy) 6/10

Fragments of Paradise (Davison) 5/10

CLASSICI

A Confucian Confusion (Yang) 8.5/10

Stella Dallas (King) 8/10

I giocatori di scacchi (Ray) 7/10

La marcia su Roma (Risi) 7/10

Il profondo desiderio degli dei (Imamura) 7/10

 

I miei premi:

 

LEONE D’ORO – Tár di Todd Field

GRAN PREMIO DELLA GIURIA – Un couple di Frederick Wiseman

MIGLIOR REGIA – Love Life di Koji Fukada

PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA – All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras

MIGLIOR SCENEGGIATURA – The Banshees of Inisherin di Martin McDonagh

COPPA VOLPI PER L’INTERPRETAZIONE FEMMINILE – Ana de Armas per Blonde

COPPA VOLPI PER L’INTERPRETAZIONE MASCHILE – Brendan Fraser per The Whale

PREMIO MARCELLO MASTROIANNI – Leonardo Maltese per Il signore delle formiche

 

 

 

 

 

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