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Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller
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Morte di un commesso viaggiatore (Death of a Salesman,1949), definito “ il monumento funerario ad un’ America assai triste”, l’America del dollaro con tutti i suoi sogni infranti, è il testo più conosciuto di un Arthur Miller che nel 1949 aveva trentaquattro anni, viveva a Brooklyn e, raccontava Vice nel 1951, “ stava in una casa molto modesta; non amava la vita brillante dei locali notturni e non possedeva neppure uno smoking” (Vice, Alla ricerca di Luchino Visconti, sito web)

Nel ’51 Vice parlava dell’edizione teatrale di Visconti di quel dramma arrivato per la prima volta a Milano, dopo un notevole numero di repliche e riconoscimenti a Broadway.

Arthur Miller con Morte di un commesso viaggiatore dimostra di avere veramente qualche cosa da dire. E lo dice con un linguaggio suo. Non ci passa certo per il capo di dover gridare al capolavoro. Difetti e limiti ve ne sono ed anche facilmente individuabili. Però, al di sopra di ogni riserva, c’è la convinzione d’aver incontrato una personalità capace di intrecciare un interessante dialogo con le anime degli spettatori.” (Vice, cit.)

 E un “interessante dialogo con le anime degli spettatori” il dramma di Miller continua ad intrecciarlo, se dopo 71 anni, col mondo che cambia al ritmo di un nanosecondo, tiene stretti alle poltrone per quasi tre ore spettatori molto angosciati dall’identificazione personale e collettiva con le vicende che si dipanano sulla scena, mentre fuori, indifferenti, impazzano il Carnevale, i virus volteggiano e si moltiplicano, le sorti del governo sono in bilico e l’inverno non vuol proprio saperne di arrivare, e forse non arriverà più.

Ma quel mondo in bilico prossimo all’implosione preconizzato da Miller non appartiene solo alla letteratura e alla storia americana, e non è difficile capirlo.

Facendo un bel salto di anni e di repliche, teatrali e cinematografiche (ma non possiamo tacere, pur facendo torto a tanti grandi nomi del teatro e del cinema, la presenza di Mastroianni nella parte di uno dei due figli del commesso nell’edizione di Visconti, né tacere l’edizione di qualche anno fa a Broadway, curata da Mike Nichols, con scene, musica e regia identiche all’originale e la performance del grande Philip Seymour Hoffman) arriviamo alla splendida edizione con Alessandro Haber in questi giorni al Goldoni di Venezia, debutto a Padova ai primi di Febbraio 2020, nella traduzione e adattamento di Masolino D’Amico.

Venezia, teatro Goldoni

Produzione di Goldenart, del Teatro Stabile del Veneto e del Teatro Stabile di Bolzano, dalla regia di Leo Muscato alla scenografia, ai costumi, alle musiche, tutto collabora a dare colpi di maglio ai contrafforti di un’architettura esistenziale costruita sulle sabbie mobili del moralismo puritano, del mito del sogno Americano, della corsa al successo, all’affermazione, alla conquista.

Solo l’America? Certo il dramma è nato lì e il giovane Miller ne vedeva bene le tare, ma possiamo noi della vecchia Europa chiamarci fuori?

Un andirivieni tra presente e flashback del passato crea un tempo drammaturgico spezzettato, cinematografico, si direbbe, i personaggi entrano ed escono in interni stretti dentro muri diroccati, mattoni a vista, un ramo pende in alto, magro residuo di un albero che cresce a Brooklyn, tra i grattacieli.

Un tenero tentativo di farsi un orticello seminando carote Willy Loman, il commesso viaggiatore prossimo alla morte, lo farà, alla fine, ma non convincerà nessuno, nemmeno sé stesso.

Haber dà al suo personaggio la carica di persuasiva, lucida follia che con i gesti e con la voce costruisce il monumento alla catastrofe dell’uomo qualunque, e mentre un certo manierismo anti-naturalista emerge da dialoghi ridotti al minimo, dal vociare quotidiano che sottende crolli interiori inesprimibili a parole, assistiamo ad una rigorosa costruzione formale che si rispecchia in una espressione emotivamente assai intensa e ricercata, capace di far leggere un “tra le righe” di sconfortante squallore morale .

 

 Sulla scena, centrale, è lui, Willy, un uomo stanco ma deciso ad autoingannarsi fino alla fine, a credere ai suoi falsi miti, a negare l’evidenza del fallimento, suo e dei figli.

Stanco e invecchiato, distrutto dal vedere i due figli che non ha saputo far crescere e che non hanno combinato niente di buono, annaspa, sorride, inventa realtà inesistenti, si tira su dalla schiena curva mentre le budella gli si torcono assistendo al successo del fratello, del nipote e di tutto un mondo che né lui né loro hanno saputo captare e usare al meglio.

Perché? Non c’è risposta, o forse nessuno vuol darsela, e restano solo frustrazione, necessità di inventarsi quello che non c’è e non si ha, rimuovere ricordi traumatizzanti.

La sottigliezza con cui Miller crea le scene e delinea la psicologia dei personaggi conduce chi guarda a identificarsi con loro ed è occasione di straordinaria performatività nel disegnare il plumbeo e alienante ritratto di una realtà senza scampo.

Nessuna città felice è al riparo dalla catastrofe, sembra dire, e quella di Willy è per di più una falsa felicità, il guscio tutto esteriorizzato della famigliola americana tipo, padre gran lavoratore ma poco guadagno, madre casalinga devota che il marito tratta con affetto ma non esita a dimenticare in braccia generose dove consolarsi dal lungo girovagare per gli States, figli votati al culto dell’effimero, dell’immagine esteriore, del campionato sportivo, della collezione di sottane.

Balenano anche mondi lontani, promessa di grande ricchezza, le miniere dell’Africa, le foreste dell’Alaska. Un fratello di Willy ha costruito così fortune, l’uomo americano trionfa dappertutto nel mondo, ora con le motozappe, domani con i kalasnikov, ma Willy e figliolanza restano abbarbicati alla Grande Mela e la realtà scappa loro di mano

Quello in cui si muovono i personaggi è un territorio mobile, articolato e straniante dove tutti girano intorno a sé stessi in assenza di condivisione, inclusione, costruttiva accettazione dell’altro.

Solo il pianto finale di Biff sulle ginocchia del padre, akmé di altissima tensione drammatica, aprirà quello spiraglio verso territori sconosciuti dell’inconscio dove per decenni si sono stratificate rimozioni inconfessate e inconfessabili.

Da quello spiraglio Willy passerà per prendere la prima decisione seria della sua vita: morire.

Desolante il funerale seguito dalla famiglia e due o tre conoscenti, mentre la moglie chiude con il suo breve monologo:

Willy perdonami, non mi viene da piangere, chi lo sa perché, non capisco perché l’hai fatto, aiutami tu, non mi viene da piangere, mi sembra che tu sia partito per il solito giro e sto qui, ancora, ad aspettarti. Perché l’hai fatto? Mi sforzo, ma non riesco a capire, Willy. Ho pagato l’ultima rata della casa oggi… oggi caro, e la casa è vuota. Abbiamo pagato tutti i debiti … Abbiamo pagato tutti i debiti…”

 

E’ il crollo del sogno americano e la morte incomprensibile di un commesso viaggiatore trascina tutti con sé.

Merito straordinario del cast e del traduttore aver impedito qualsiasi involuzione psicologistica, suggerendo senza esplicitare infiniti sottotesti governati da una solida spina portante. Haber catalizza tensioni e contraddizioni, è il reagente per antonomasia, l’omino senza qualità, il pessimo bugiardo che nel gesto finale fuori scena s’innalza a dimensione eroica, deludendo tutti anche con la sua morte. Ed è la sua rivincita più vera sulla vita.

 

 

 

www.paoladigiuseppe.it

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